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Male chi ti cheres tue, mai b’eppet rimediu.

Che niente possa salvarti dal male che vuoi procurarti. Mi risuona ancora nelle orecchie quella maledizione che sapeva di sentenza (unu frastimu) inflitta dagli anziani di Tresnuraghes ad alcuni compaesani vittime di un’autolesionistica proto-sindrome di Tafazzi, il personaggio televisivo che si assestava dolorosissime mazzate sotto la cintura.

In Sardegna l’autolesionismo sembra andare di moda. A proposito della politica, il fenomeno in questi mesi si mescola in maniera esplosiva ad altri difetti – alcuni atavici e altri tipici del momento storico in cui viviamo -, in un combinato disposto che rischia di rilevarsi mortifero.

Mentre a Roma e a Bruxelles vecchie e nuove lobby decidono il futuro dell’Europa e dell’Italia, tagliando sistematicamente fuori la Sardegna (debole numericamente e politicamente, priva di personalità autorevoli che ne tutelino i diritti), mentre siamo sempre più isolati e privi di infrastrutture, nell’Isola si gioca a Monopoli.

Mentre si celebra il miraggio della vecchia industria assistita e i responsabili dell’inquinamento fuggono via indisturbati, mentre i magistrati scoprono vecchi e nuovi imbrogli, mentre l’Italia è commissariata da un comitato di giudici fallimentari, qua da noi si moltiplicano le liti tra allergici all’attuale bipolarismo.

In troppi restano nascosti dietro ai sofismi della politica, sopraffatti dall’individualismo e dal leaderismo, divisi dall’assenza di un vero sentimento di coscienza comune, a volte ostaggio di tifoserie settarie e utilitaristiche, vittime spesso inconsapevoli dell’autoreferenzialità e ancora non immuni dal “servaggio”, oppure perfettamente in buona fede ma scollegati dalla realtà.

Non dobbiamo prenderci in giro: lo stesso rischio lo corre l’ampio movimento (perché lo percepiamo ampio, in crescita) attorno a cui gravitano indipendentisti, autonomisti e sovranisti che pascolano in ordine sparso.

Quando si è provato a far notare a qualcuno dei dieci o dodici leader indipendentisti di quella galassia che la divisione è sinonimo di sconfitta certa, si è spesso ottenuto l’effetto di essere guardati con un misto di incredulità, diffidenza, disprezzo e compassione.

È vero, le differenze esistono e sono spesso una ricchezza. Ma siccome i conti si fanno col sistema elettorale vigente (nutriamo la speranza che cambi pur coltivando la quasi assoluta certezza che non sarà in meglio) e siccome di sogni, buoni propositi e “testimonianze” è lastricata la strada dei cimiteri, accade che ancora una volta a vincere in futuro potrebbero essere le coalizioni che guardano ai partiti italiani. Con tutto quel che ne consegue.

C’è invece tutto il tempo per chiedersi cosa accadrebbe se le varie anime indipendentiste si unissero, proponendo un progetto alternativo comune e magari solo contingente e non per forza strategico.

È vero che in politica non sempre due più due fa quattro. Ed è vero che non basterebbe l’unione di tutti gli attuali indipendentisti per vincere. Così come è vero che occorrerebbe invece dare una casa con progetti e protagonisti credibili a chi prende in considerazione l’ipotesi di cambiare strada, rispetto ai poli tradizionali.

Ma è anche vero che occorre mettersi in testa che non si può fare gli oppositori a vita ma che bisogna invece prendersi la responsabilità di governare. Di battere strade alternative, di sbagliare con la propria testa, lontani dalle centrali e logiche romane, mettendo al centro la Sardegna e i suoi cittadini.

C’è tutto il tempo per provare a farlo.