A esequie avvenute, a “Bella ciao” cantata, a fiumi di inchiostro colati con generosità, a celebrazioni (e autocelebrazioni) consumate, sento il bisogno fisico di condividere con i dieci lettori di questo blog, ormai dormiente, una testimonianza di prima mano “irregolare” e fuori schema.

“Fuori schema, dobbiamo essere”.
Questa è una testimonianza di prima mano su un periodo che definirei “di mezzo” nell’esperienza personale, politica (“per lei tutto era politica”, come ha opportunamente ricordato la sua amica Chiara Valerio, subito dopo la messa di ieri) e pubblica di Michela Murgia.
Una testimonianza che cerca di mettere ordine in una quotidianità quasi carnale, che ci ha visto protagonisti fra il 2011 e il 2018, dopo il successo del “Campiello” e prima che spiccasse il volo verso un naturale protagonismo sulla scena italiana, nella quale il suo talento di leader naturale non ha tardato a manifestarsi. Una leadership che le ha consegnato un primato ancora non molto indagato e valorizzato: il saper parlare ai più giovani, a una massa di invisibili, pieni di istanze e incertezze, ai quali nessuno parla e dei quali nessuno si occupa.

È una età di mezzo che testimonia il fatto che Michela non recitava ma era esattamente ciò che ogni giorno ha dichiarato di essere.

Mi sono aiutato rileggendo per ore la nostra chat: migliaia di messaggi in gran parte dimenticati, nei quali ci si confrontava sul mondo, su ciò che accadeva, sui tiri mancini della politica sarda, sulla cattiverie e le storie inventate di sana pianta e su una miriade di cose belle, emozionanti, divertenti e intelligenti.

Intelligenza. Il fascino dell’intelligenza, che Michela possedeva in una quantità illegale.
L’amore per la Sardegna: sconfinato, vero, mai forzato.

Ci siamo confidati tutto, in quel tempo di mezzo e ci siamo supportati a vicenda.

Ho ricostruito i dietro le quinte della nascita di Liberos (il network fra librai, editori, scrittori e lettori, da lei pensato per provare ad arginare lo strapotere del mercato web, che già negli anni ‘10 stava cambiando il mercato), la comune battaglia per stoppare il “Progetto Eleonora”, il suo ruolo di principale consigliera nella mia esperienza alla direzione de “L’Unione Sarda”, la nascita della candidatura alla presidenza della Regione e la sfida – contro tutti i poteri – per schierare quel giornale al fianco suo e dell’idea di libertà e novità che quella proposta rappresentava.

Nella prima settimana della mia direzione inventai per lei la rubrica di taglio basso che firmò per una settimana, prima di cedere il testimone ad altri 33 protagonisti, che si alternarono per 33 settimane.

Con lei pianificai il codice etico interno, condiviso poi con la redazione, sulle modalità con cui dovevano essere trattate le notizie e le titolazioni che riguardavano i soggetti deboli. Introducemmo – quando ancora negli altri quotidiani non c’era – il concetto di femminicidio e il linguaggio di genere. Fu davvero una stagione stimolante..

E poi Chirù (“Sei l’amico di Tresnuraghes, uno dei soli tre personaggi veri che cito nel libro”) e poi gli editoriali irriverenti sull’attentato al Bataclan (“Muroni, ma lei è sicuro di continuare a dare spazio a queste bizzarre idee della Murgia?”) e i reportage dalla Turchia, pubblicati proprio negli ultimi giorni della mia direzione.

Il venerdì notte trascorso assieme in chat a interrogarsi se era il caso o no di confermare le dimissioni, la paura del futuro, la comune idea di verticalità e di sfida alla prepotenza.
E poi il collegamento in diretta col Teatro Massimo, lo sprone a provare a raccogliere il testimone per la creazione di un percorso di autodeterminazione, i consigli belli e le critiche feroci e sincere.
Non sono mai riuscito una sola volta a litigare con Michela (e infatti non esistono reciproci episodi di critica pubblica) e non ho mai capito perché: rileggendo la chat successiva al mio abbandono del campo politico dopo le elezioni 2018 si rileva una mia necessità quasi fisica di litigare con lei. Eppure a ogni rispostaccia e provocazione, rispose con ferma dolcezza. Le avevo dato più di un’occasione, in quelle ore, di mandarmi a quel paese ma non lo fece: fu granitica nel rimprovero ma sempre dialogante e amorevole.
Venne poi il tempo in cui la quotidianità si interruppe: Michela era già un personaggio nazionale e io non le perdonai un suo post che giudicai inutilmente cattivo, quando salutando la scomparsa di Paolo Pillonca, che per me era un faro culturale e umano, scrisse “No, non sarò ipocrita e non dirò che oggi è una brutta giornata”.
Era Michela, c’era il suo essere vera, spietata, mai ipocrita. Era così, uguale e coerente con se stessa, sia che dovesse parlare in tv da Augias (“È un coltissimo stronzo, un misogino di gran classe”) o alla Scala di Milano o che si trovasse a Palmas Arborea (“Non puoi capire che esperienza strabiliante”) o Magomadas.
Era così, eppure ne soffrii molto, lo presi quasi come un tradimento.

Le chiesi poi perché aveva innescato un casino attaccando il parroco di Cabras con la scusa delle campane della Pieve che l’avevano svegliata e poi perché aveva rifiutato di unire la sua voce a quella dei cabraresi che nel febbraio 2021 lottavano per evitare che i Giganti venissero restaurati lontano dal Sinis: “Sai bene che non stimo Franceschini e non sopporto il fatto che l’Italia comandi in Sardegna, ma non condivido un solo atomo di questa battaglia, le statue non sono di Cabras ma un patrimonio dell’umanità. Scusa, il mare è di Cabras? Il mare scorre, la stessa acqua che ha bagnato Pantelleria domani bagna Tunisi e dopodomani Cagliari. No, dai”.


Poi la chat mi racconta un’altra data dimenticata. Tutti si riferiscono all’intervista a Cazzullo di qualche mese fa, in cui Michela preparò il pubblico al suo congedo da questo mondo.
Eppure la vera data è quella del 2 febbraio 2022, quando annunciò di essere colpita dal male. Non era assolutamente rassegnata, anzi: “Sono sopravvissuta al primo, reggerò anche al secondo 😉 sono forte e l’affetto che mi circonda è già metà terapia. Ti abbraccio”.

L’ultimo incontro al Salone di Torino, quando non era ancora tempo di bilanci, nella sala colazione dell’NH, che ospitava entrambi: “Tirati fuori quest’espressione dalla faccia, sono viva e pensami viva. È che non ho tempo (“E quando mai nei hai avuto?”) ma stai certo che sono viva. A proposito, sai bene che della Fondazione non me ne frega nulla, ma tu ora vai avanti ancora di più, cento volte più di prima. Che se ci arrendiamo tutti noi, tempo decente ne resterà ancora meno”.