Da questa nuvola
Si vede che c’è un’isola possibile
E perché questo non accada
C’è chi fa l’impossibile
(P. Marras, 1978)

In questi anni da semplice cittadino e lettore, con una conoscenza professionale del mondo della pubblica amministrazione, mi sono appassionato al dibattito sulla possibilità di portare avanti una diversa dimensione dell’essere sardi e della Sardegna, di una Sardegna “immaginabile”. Ma per immaginare il futuro dei prossimi decenni, e soprattutto il presente dei prossimi anni, è necessario costruire una narrazione condivisa. Una narrazione che sia non solo di chi ha le idee (e magari vorrebbe anche governare), ma che sia anche del “popolo” nell’accezione più ampia e nobile che a questa parola si può dare.
Perché una narrazione diversa? Sono convinto che il dibattito di oggi sia basato su una narrazione “lontana” dalla realtà quotidiana dei miei 1.650.000 connazionali, a partire dal percorso storico-identitario del popolo sardo. Se si esclude l’insularità, è veramente faticoso individuare elementi di realtà che caratterizzano la dimensione di “Popolo”. Solo nel periodo giudicale si può forse parlare di un popolo nelle istituzioni, nel diritto, nella lingua, nell’identità. Se qualcuno afferma che esiste un essere popolo nella storia della Sardegna, pochi se ne sono accorti nei secoli. Prima e dopo i giudicati è un continuo susseguirsi di dominazioni fino al Regno di Sardegna (dei Savoia), per approdare all’Unità d’Italia e alla Repubblica. La dimensione “identitaria” sul piano istituzionale si afferma solo con lo Statuto Speciale nel 1948 (art. 116 Cost.), nella quale viene riconosciuta all’interno della repubblica che resta “una e indivisibile” (L. Cost. 3/1948). È in ogni caso una specificità riconosciuta più in termini di sviluppo, di peculiarità socio-economiche e geografiche, che un riconoscimento del “popolo sardo”. La “Specialità” e “l’Autonomia” segnano tuttavia uno dei pochi importanti risultati storici per i sardi, finalmente ottenuto da un movimento politico endogeno strutturato, che per la prima volta riesce a rappresentare le esigenze della nostra terra e dei suoi abitanti con successo. Un successo mai raggiunto prima.
Ma questo successo è anche la conferma dell’esistenza di una narrazione “distorta” e idealistica: bisognerebbe accettare che nella nostra storia non c’è una sola vera rivolta popolare rimasta nei libri di storia! Non c’è una storia di rivolta, e non perché la storia la scrivono i vincitori, ma perché semplicemente non c’è mai stata! Non si possono citare episodi e farli diventare una storia che non ha mai visto la luce. Bisognerebbe accettare fino in fondo che prima degli anni ‘20 del secolo scorso non esiste un solo contributo per la “Natzione Sarda” arrivato a noi. Non esiste un Pasquale de Paoli nella storia sarda! È solo la prima guerra mondiale, con il sangue versato da 13000 giovani sardi e la sofferenza di tanti mutilati, a risvegliare una “Sardità” che si ritrova in limba e appartenenza solo lontano dall’Isola, tra le Alpi e l’Isonzo. Il risultato storico è paradossale: tanti sardi morti per l’Italia in pochi anni e pochi sardi morti per il popolo sardo in tanti secoli.
Ancora oggi è evidente la forzatura storica di questa narrazione dominante, per la quale “culturalmente” festeggiamo una Die de Sa Sardigna come giorno di festa del Popolo Sardo, volendo dare un valore storico a un episodio che storicamente non è altro che una pseudo-rivolta che cacciò in primavera qualcuno che ritornerà alla fine dell’estate (sic!). Il tutto per far risalire al 1794 un pezzo di storia che vedrà la luce solo 140 anni dopo.
Perché questo sintetico e ipersemplificato excursus storico? Ripartire dalle difficoltà storiche e ideologiche che permeano le narrazioni dominanti, può aiutare a costruire la storia attuale e lo sviluppo futuro della Sardegna.
Sarebbe necessario riconoscere che la possibilità di una narrazione “forte” per “un popolo sardo” è dovuta più alle “opportunità” di sviluppo arrivate dall’esterno, e in particolare da quelle create dall’Italia repubblicana, e molto meno alla capacità endogena di creare sviluppo a partire dalle risorse della nostra isola. Rari, e talvolta dimenticati molto velocemente, sono stati coloro che hanno avuto la forza e la capacità di esprimere un percorso di sviluppo. Sarebbe utile anche riconoscere che la ragione di questa debolezza non è dovuta alla dominazione “straniera”. Altre regioni italiane partite nel dopoguerra da condizioni socio-economiche simili hanno avuto percorsi profondamente diversi. Questo vale per tutti gli assets importanti che hanno accompagnato lo sviluppo della nostra isola nel XX secolo: le bonifiche, l’industria mineraria, l’alfabetizzazione diffusa, il turismo, le compagnie di navigazione e quelle aeree, la petrolchimica, ecc.
Solo prendendo coscienza di questi “limiti” endogeni si può costruire un futuro diverso. Solo riconoscendo che noi sardi di oggi siamo più frutto dell’Italia unita monarchica e repubblicana, e in certi casi di alcuni imprenditori nazionali e internazionali non sardi, possiamo confrontarci con noi stessi e pensare che il successo è un qualcosa da auspicare ai propri conterranei e non da guardare con invidia e malevolenza (…bogami un ogu’…). Anche molti “grandi” Sardi sono stati spesso riconosciuti tali solo lontano dalla Sardegna.
Le narrazioni proposte sulla maggior autonomia e diventar nazione, spesso si collocano su una linea orizzontale posizionandosi rispetto alla destra e alla sinistra, la sinistra è d’altronde l’area storica di nascita dell’autonomismo. Questa lettura, onnipresente, tende però a perdere di vista la centralità che potrebbe orientare la crescita di un movimento più ampio, poiché offre una risposta connotata da una lettura idealistica della Sardegna che si vorrebbe. Questa lettura idealistica appare spesso supportata da posizioni personali molto forti (e poco popolo al seguito), ma evita e rinuncia a una riflessione su cosa dovrà essere una Sardegna autogovernata, che dovrebbe essere basata sull’approfondimento delle risposte possibili ai bisogni attuali. In questa lettura vengono ignorati anche i desideri sul futuro espressi dai cittadini, e ci si limita a dare una generica risposta che il domani sarà meglio del passato. È arrivato forse il tempo di spostare l’analisi su una lettura verticale in grado di analizzare e attraversare la società sarda di oggi partendo dai suoi bisogni e desideri. Il percorso deve, però, almeno in parte cambiare.
Se si supera l’idealismo che ha caratterizzato, e caratterizza molte narrazioni autonomistiche e indipendentistiche, ci si ritrova soli con se stessi e gli altri sardi che lo desiderano ad affrontare i veri “temi caldi” che oggi riempiono il quotidiano di tante persone: la capacità di produrre reddito, le opportunità di lavoro sufficienti al mantenimento e allo sviluppo dell’isola, la capacità di compiere in modo condiviso e perseverante un percorso che porterà a tensioni durature con il governo italiano, e soprattutto la rinuncia alle politiche assistenzialiste che hanno caratterizzato la storia economica dal dopoguerra a oggi (ancora oggi la Sardegna è una delle prime regioni in Italia per spesa pubblica procapite, e la quota del PIL regionale che dipende direttamente e indirettamente da risorse pubbliche è impressionante). Se si fa, e si ha il coraggio di questa scelta, ci si ritroverà da soli, con i propri limiti e le proprie capacità.
Per provare a costruire una narrazione non idealistica é necessario allora tornare all’Italia, l’Italia del 2017. Probabilmente davanti allo specchio scopriremo un’identità meno diversa da quella “dell’italiano medio” di quanto ci auto narriamo, e potremo iniziare a guardare in faccia l’opportunismo, l’individualismo, la passività, l’elusione dei problemi, il tirare a campare, l’assenza di meritocrazia, l’invidia, la collusione, la mafiosità di alcuni comportamenti…
Se oggi in tanti scrivono e dicono che l’Italia deve fare delle scelte, questo è ancora più vero per la Sardegna.
La capacità di costruire una narrazione diversa consentirebbe, a mio modesto parere, di superare una lettura del rapporto con tutto ciò che arriva “da fuori” in termini di dipendenza o controdipendenza. Occorre avere e sviluppare comportamenti proattivi rispetto a un possibile percorso di maggior autonomia, anche fino alla possibile indipendenza, offrendo a tutta la popolazione della Sardegna la possibilità di posizionarsi rispetto ai propri bisogni e desideri. Questo oggi potrebbe essere fatto molto facilmente, e quanto accade da altre parti in Europa ne è una dimostrazione. L’aspetto che mi impressiona di più è che, a fronte di scritti più o meno strutturati che quotidianamente leggo, non ritrovo alcun elemento che supporti un comune lettore, quale io sono, nella riflessione e nel posizionamento rispetto alla “domanda fondamentale”: che cosa accadrà se la Sardegna diventerà più autonoma? e se diventasse indipendente?
Mi rifiuto, in questo momento storico, di continuare a leggere per i prossimi 10 anni le interessanti, ma sterili narrazioni sul lungo percorso, sui tempi e “il popolo” non maturo, sulle geometrie variabili con la politica dei partiti nazionali. Sono ormai maturi i tempi per esprimersi rispetto alla Sardegna di oggi e alla Sardegna che si vorrebbe. Si può farlo sulla base di dati e informazioni disponibili, sulla base delle politiche e degli interventi realmente percorribili nella nostra terra già da domani.
Non è un’idea originale, un esempio é il libro bianco “Scotland’s Future – your guide to an indipendent Scotland”, che ha consentito a tanti scozzesi di comprendere quale potrebbe essere lo sviluppo per la propria nazione.
È possibile pensare che nel 2017 in Sardegna si riesca ad elaborare un documento sul nostro futuro basato su dati reali, e che questo possa essere condiviso con tutti i sardi?
Un documento concreto grazie al quale ogni sardo possa prendere una posizione rispetto a quello che desidera per la propria vita quotidiana: cosa accadrà alla finanza pubblica e alla fiscalità? all’occupazione? alle imprese? al sistema previdenziale? al sistema sanitario? al sistema educativo? Perché realmente la scelta dell’indipendenza porterà benefici per la tutela dell’ambiente, per la produzione dell’energia, per il sistema dei trasporti, per il funzionamento della giustizia? Cosa accadrà nel settore della difesa e delle forze armate, della sicurezza e dell’intelligence? Che tipo di accordi si faranno con lo stato italiano per la televisione pubblica e il servizio postale? Fino ad arrivare alle domande più scomode: cosa ne sarà della quota del debito pubblico che la Sardegna erediterà dalla Repubblica Italiana (2.270 miliardi)? Una futura Sardegna indipendente dovrà ereditare, in teoria, una quota di debito pubblico di circa 60 miliardi!!!
Scusate, forse ho esagerato. La “verità” è che si preferisce continuare con un po’ di articoli sui blog, qualche manifestazione antimilitarista, la strenua difesa della lingua sarda, il posizionamento strategico da sovranisti autonomisti, o pseudo-indipendentisti, alleandosi con i partiti nazionali perché tanto il percorso è lungo e i sardi non sono pronti …
Forse questa piccola verità, porta in seno la verità più grande: si preferisce continuare a dipendere da un PIL basato sul finanziamento pubblico della tanto opprimente Italia “padrona”, limitatrice di libertà, ma “pusher” del tanto amato assistenzialismo con i suoi delegati e amati capobastone sardi al 100%.
La storia non è sempre lineare e, talvolta, accelera. Se c’è qualcuno che la pensa diversamente è tempo di iniziare a scrivere!