(Una risposta articolata alla teoria autonomistica e subalterna del costituzionalista Gianmario Demuro)

In seguito alle dimissioni dell’assessore Maninchedda si è aperto un dibattito sull’indipendentismo. Sono intervenuti in tanti e sono intervenuto anche io. Poi lo scorso tre luglio è intervenuto sul tema il costituzionalista Gianmario Demuro. Il suo articolo merita molta attenzione da parte nostra perché in effetti sintetizza e capitalizza tutte le contro argomentazioni che nei prossimi anni ci troveremo davanti ogni qualvolta cercheremo di far fare un salto di qualità alla lotta per l’autodeterminazione e l’autogoverno della nostra nazione.
La linea del suo intervinto – che ha il sapore di un’arringa difensiva anti indipendentista – può essere sintetizzata nei seguenti punti fondamentali: 1. postulato di identità fra autonomia regionale e democrazia; 2. ritorno alle “origini dell’autonomismo”; 3. riconoscimento ed esercizio della “pluridentità”; 4. riconoscimento reciproco tra le identità nell’unità repubblicana; 5. riconoscimento della specialità della Sardegna e contrasto al centralismo.
Coerentemente a questo impianto Demuro propone di «rafforzare gli istituti del diritto costituzionale che sono stati scritti per rafforzare l’autonomia», a partire dallo Statuto Speciale e in generale «tutti gli strumenti di dialogo tra lo Stato e le singole autonomie regionali». Demuro termina il suo articolo con questa suggestiva dichiarazione: «essere autonomisti oggi significa continuare a pensare che la discussione democratica avviene tra pari che si riconoscono l’un l’altro».
Vorrei appunto partire da qui, dalla “discussione democratica tra pari” tra i sardi e lo Stato in cui attualmente siamo forzosamente collocati. Senza andare troppo indietro nella storia e nella genesi dello Stato, faccio subito un esempio fresco fresco di “dialogo tra pari”: rispondendo ad una interrogazione parlamentare il ministro dell’Ambiente Galletti ha recentemente dichiarato che sulla centrale solare termodinamica di Gonnosfanadiga deciderà il Consiglio dei Ministri perché il progetto «è in linea con gli obiettivi dell’Unione Europea e del nuovo pacchetto Clima ed Energia 2030, nonché con la normativa nazionale in tema di energie rinnovabili» nonostante la contrarietà della RAS e delle comunità locali. Sarei curioso di sentire il parere di Demuro su questo. Altro grande esempio di dialogo fra realtà che si riconoscono nella democrazia autonomistica fu la bocciatura del referendum consultivo sull’invasiva presenza del demanio militare in Sardegna promosso dal comitato “Firmas sas bombas” agli inizi degli anni Duemila. Il quesito – fra l’altro si trattava solo di un referendum consultivo – recitava così; “siete contrari alla presenza in Sardegna di basi militari straniere, comunque istituite, atte ad offrire punti di approdo e di rifornimento anche a navi e sommergibili a propulsione nucleare o con armamento nucleare?” e venne bocciato dalla Consulta regionale per i referndum perché fu ritenuto uguale a quello bocciato dalla Corte Costituzionale nel 1989. Le motivazioni della bocciatura della Corte Costituzionale richiamate dalla Consulta parlano proprio i linguaggio del “riconoscimento paritario tra soggetti che si riconoscono l’un l’altro”:
a) dichiara che non spetta alla Regione indire referendum di cui al decreto del Presidente della Giunta della regione Sardegna del 19 ottobre 1988, n. 161;
b) annulla il decreto di indizione di tre referendum consultivi che si sarebbero dovuti tenere rispettivamente due l´11 dicembre 1988 ed il terzo il 16 aprile 1989.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 aprile 1989. (F.to: Francesco SAJA, Presidente; Francesco GRECO, Redattore; Doro MINELLI, Cancelliere).
Un medesimo atto di dialogo tra pari avvenne nel 2007, quando l’allora presidente della Regione Speciale Renato Soru tentò di riscrivere lo Statuto autonomo partendo dalla Consulta Statutaria. Il tentativo fu prontamente bocciato dalla Corte Costituzionale perché la legge che la istituiva introduceva nel preambolo la dicitura di “Popolo Sardo sovrano”. Infatti i signori giudici dialoganti e paritari dichiararono che “in base all’art. 1, comma 2, della Costituzione, esiste solo un popolo sovrano, evidentemente quello italiano”. Una bella prova di dialogo tra soggetti paritari e riconoscentesi l’un l’altro!

La verità è che Demuro fa una mera opera di ingegneria giuridica evocando belle parole ed effetti speciali storici e retorici, ma omette una questione fondamentale e direi imprescindibile: la subalternità. La Sardegna, i sardi, l’intero sistema politico sardo che ha governato durante tutto il periodo autonomistico dall’entrata in vigore della legge costituzionale ad oggi e l’intero ceto intelettuale (salvo rarissimi casi eccezionali) fino ad oggi sono stati completamente subalterni. Cioè le classi e i ceti egemoni sardi non hanno mai messo in discussione l’impianto diseguale su cui si basa la nostra appartenenza allo Stato, appartenenza che non si basa affatto sul “riconoscimento fra pari” di cui vagheggia Demuro, bensì sul mancato riconoscimento dell’esistenza della nazione sarda e del suo diritto ad autodeterminarsi. Senza questo diritto è inutile parlare di democrazia, autonomia, identità plurime e via dicendo. Accettare la subalternità per le classi mediatrici sarde era conveniente in termini economici, di progressione di carriera, di collocamento lavorativo e persino di soddisfazioni personali. Il sistema che ha gestito la subalternità si è avvalso a piene mani del meccanismo ben descritto dal leader afroamericano Malcom X dei “negri da cortile”. Essi – argomentava Marcom X – sono interessati a vivere e lavorare pacificamente tra i bianchi e vengono usati da questi per tenere sotto controllo la massa e mantenerla passiva disinnescando ogni forma di ribellione e dissenso radicale. Ecco perché non ci ribelliamo alle continue prevaricazioni dello Stato, delle oligarchie, degli speculatori. Perché la classe dei mediatori, delle articolazioni sarde dei partiti e dei sindacati italiani (compresi quelli sedicenti di sinistra, anticapitalisti e antiliberisti) e perfino delle loro stampelle sovraniste o indipendentiste, è ancora molto forte e si nutre delle categorie forgiate da validi intellettuali come Demuro.

Ma si tratta di un sistema in profonda crisi, potremmo dire, parafrasando un famoso testo di Lenin, di un sistema arrivato alla sua “fase senile”. E in questa fase di stanchezza e di mancanza di risorse per rispondere al bisogno di creare clientes fedeli che mettano radici nel territorio e tengano le briglie del consenso, arrivano i riscopritori dell’autonomismo, come appunto Demuro, i quali rispolverano Lussu e capitan Bellieni, dichiarando che dobbiamo tornare alle origini e che dobbiamo guadagnare più autonomia. Ma senza mettere in discussone la subalternatà, senza rompere i legami materiali con Stato e oligarchie politiche ad esso collegate, senza combattere i monopoli dei trasporti e dell’energia, parlare di “autonomismo”, di “sovranismo” o perfino di “indipendenza” ha il sapore di una beffa e si risolve in una sapiente operazione di fumo negli occhi per non affrontare l’unico vero nodo gordiano della questione sarda: la costruzione di una alternativa politica capace di cambiare il segno alla storia della nostra terra passando dall’epoca della subalternità e della dipendenza a quella segnata da politiche incentrate sull’autdeterminazione, sull’autogoverno e sull’autodecisione. Allora e solo allora, quando avremo creato questa alternativa e rotto con i gruppi di potere che praticano la subalternità e la dipendenza, avrà anche senso parlare di “autonomismo” nella misura in cui una nuova classe dirigente sardocentrica riprenderà in mano anche lo Statuto e applicherà tutti quei punti rimasti fino ad oggi lettera morta, portando al massimo la torsione insieme giuridica e politica a cui può essere portata quella carta. E da lì inizierà la battaglia per guadagnare terreno nella strada verso una prospettiva di autodeterminazione sempre più ampia, come è avvenuto anche per altri popoli e come sta avvenendo oggi in Catalogna.