In un suo recente intervento su questo blog, Sergio Gabriele Cossu ha espresso il suo punto di vista sul futuro del mondo indipendentista, sottolineando la necessità di far venir meno i troppi personalismi e l’eccessiva atomizzazione della sua offerta politica in una miriade di sigle spesso l’un contro l’altra armate.

A questo fine ha proposto felicemente come modello quello delle forze partigiane che, pur riconoscendosi in visioni del mondo profondamente diverse erano riuscite tuttavia a lasciarle sullo sfondo allorché la priorità era quella di fronteggiare in modo efficace il comune nemico rappresentato dal totalitarismo nazi-fascista, salvo poi riprendere a combattersi anche duramente una volta (ri)conquistata la democrazia.

L’unità delle forze sovraniste già attive è quindi indispensabile ma è tuttavia insufficiente allorché l’obiettivo che ci si pone è quello ambizioso di diventare polo non solo competitivo ma potenzialmente maggioritario nel consenso degli elettori.

E’ per questo che la chiave di un futuro successo politico non potrà che essere frutto di una maturazione di un’area sovranista che dovrà dimostrarsi capace di abbracciare tutto lo spettro politico, senza per questo disconoscere il merito storico della sinistra libertaria di aver saputo testardamente mantenere viva la talvolta flebile fiamma identitaria durante la lunghissima traversata nel deserto (peraltro non ancora conclusa) in cui è rimasta ai margini della vita politica isolana.

In tutto il mondo occidentale a guidare i processi di sviluppo e indipendenza economica è storicamente una borghesia nazionale, responsabile e consapevole del suo ruolo storico di motore delle società moderne, mentre la funzione di costruzione dell’identità nazionale, (dai simboli al linguaggio alle espressioni artistiche) tende ad essere ad appannaggio di intellettuali che di quella borghesia sono in gran parte espressione.

Il tutto all’interno di un circolo virtuoso per il quale, come ricorda Roberto Bolognesi, una borghesia nazionale si forma con la cultura nazionale che la genera autorigenerandosi a sua volta ed insieme, l’una e l’altra, esprimono ovvero danno legittimità ad una classe politica nazionale.

In Sardegna questo circuito è inattivo o attivo solo in forma embrionale, ed è il motivo per cui la borghesia sarda, specie urbana, non ha fatto altro che alimentare il circolo vizioso della dipendenza culturale, economica e quindi politica e di questa, l’ho sperimentato a mie spese, il partito dei Riformatori Sardi è nei suoi leader attuali l’avanguardia più spregiudicata assieme a Forza Italia.

Non è quindi ai leader principali, ma agli elettori di questi partiti che i sovranisti devono rivolgersi direttamente, in attesa che iniziative politiche identitarie realmente valide e competitive si configurino anche a destra dell’asse imprenditore-operaio.

Questa ha evidentemente perso il ruolo egemonico che aveva avuto nel secolo scorso nell’indirizzare le scelte degli elettori (ed è il motivo per cui il sovranismo è oggi realmente competitivo dal punto di vista politico), ma resta comunque molto rilevante. Allorché l’obiettivo che ci si pone è quello di massimizzare il consenso intorno al “sardismo diffuso” presente lungo l’asse centro-periferia, questa deve necessariamente essere aperta anche a chi si identifica nell’ideale liberaldemocratico, nel pensiero liberista o nei valori tradizionali di Dio, (piccola) patria e famiglia che sono propri della destra conservatrice e in cui io stesso mi riconosco.

Quest’ultimo riferimento mi fa aprire una seconda riflessione che è anche una domanda che rivolgo a me stesso e a chi legge: come può il mondo indipendentista dichiararsi largamente laico e anticlericale, (per non dire manifestamente anticristiano) allorché la Sardegna nella sua interezza si identifica ininterrottamente da almeno 1400 anni nella religione fondata da Gesù di Nazareth e che questa ne ha plasmato indelebilmente la civiltà nel corso dei secoli?

E’ poi ipotizzabile, continuo a chiedermi e a chiedere a voi, una vittoria elettorale che prescinda del contributo dei cattolici praticanti allorché questi costituiscono una fetta importantissima della popolazione dell’isola?

Un progetto politico realmente nazionale dovrebbe essere necessariamente inclusivo di tutte le componenti della società sarda, moderati e cattolici in primis e non escludente qual è purtroppo sempre stato finora, con esiti che tra l’altro possiamo eufemisticamente definire alquanto deludenti.

Diamoci una mossa per allargare i nostri orizzonti superando pregiudiziali stantie e porre così basi solide per realistiche opportunità di successo nella società e nelle istituzioni democratiche.