Alberto Mario Delogu, agronomo sassarese, dopo alcune esperienze professionali nell’Isola, dal 1998 si è trasferito in Canada. Dal 2005 è a Montreal, dov’è direttore di una corporate biovegana.
Lei è sardo, attento osservatore di cose sarde e italiane, pur da una terra lontana. Che idea si è fatto sul post-elezioni Politiche e sui teatrini a proposito della formazione del governo?
Dopo le elezioni del 2010 in Belgio ci sono voluti quasi 20 mesi perché si potesse formare un nuovo governo. L’Olanda l’anno scorso ci ha impiegato 7 mesi, la Germania 5 mesi. I due mesi italiani sono del tutto normali. Quel che non trovo normale è che negli ultimi 25 anni d’illusione maggioritaria i politici italiani abbiano disimparato l’arte della politica, cioè dialogare, discutere e imparare a trovare un accordo.
Non è dunque peregrina l’idea che in Sardegna venga aggiornato il concetto di “voto utile”, oggi integralmente riferito a quello per i partiti italiani che vanno per la maggiore.
Il corpo elettorale di un paese moderno è frammentato ed è giusto che lo sia. Il professor Mariotto Segni 25 anni fa ha commesso l’errore di pensare che gli italiani fossero anglosassoni e ha promosso l’OGM del maggioritario in nome della governabilità. Erano gli anni di Ghino di Tacco, degli aghi della bilancia e dell’idea che gli italiani si dovessero vergognare di avere avuto 60 governi in 60 anni. Ma l’Italia non è il Canada, e l’OGM è stato rigettato. La Sardegna poi è rimasta alla ruota di tutto questo, da ubbidiente provincia dell’impero.
Nella nostra isola i partiti “sardi” che vanno per la maggiore (Psdaz e PdS) sono in alleanza con i partiti italiani.
Avrei anche capito un’alleanza con la Liga Veneta degli anni ’80 che ha avuto un breve periodo di sincero indipendentismo, ma un’alleanza con questa Lega salviniana e nativista sinceramente non la capisco. Ammettiamo pure che si tratti di strategia, e che un Salvini al governo apra realmente le porte al federalismo. Ma anche alla scaltrezza strategica c’è un limite.
Il futuro del bipolarismo italiano è quello Di Maio-Salvini? E in Sardegna, nel caso, che accadrà?
Non ho una grande opinione del bipolarismo. La Sardegna dovrebbe mettere mano alla propria legge elettorale in senso proporzionale e darsi da fare per costruire pian piano un suo panorama politico autonomo.
In quale maniera, prima ancora che politicamente e a livello di partiti, in Sardegna si può combattere una vera battaglia culturale?
Nelle scuole e nelle università, nelle radio e nelle televisioni, nei giornali e su internet. Ci sono secoli di colonialismo culturale da scrostare, l’affresco della lingua e della cultura sarda da restaurare e da riportare ai colori e allo splendore originale. Serve alla cultura sarda una vera “operazione Ultima Cena”.
C’è un futuro per l’economia sarda?
Altroché se c’è. La Sardegna ha una serie invidiabile di risorse naturali. Ha sole, vento e terra, le fonti di energia del domani. La Germania ricava il 7 per cento della propria elettricità dal sole, con un’insolazione media al 60% di quella sarda. Invece di dover scegliere tra rifiuto e rapina i sardi devono farsi capaci di decidere, negoziare i benefici, trattare sulle royalties e sulle ricadute tecnologiche per imprese locali, sui fondi per la dismissione. Le comunità locali devono sedersi al tavolo. Ma c’è un’altra risorsa, la più importante, sulla quale bisogna investire: quella umana. Bisogna riportare i sardi a scuola e all’università. Anzi, bisogna portare le scuole e le università ai sardi. In America a fine ottocento nascevano università nei posti più sperduti, a ore di distanza dalle città più vicine. Stanford, Cornell, Yale, Berkeley, Davis sono nate così. Poi tutt’attorno nasceva una città. Invece in Sardegna è tutto sempre centripeto, si investe dove si è già investito. Bisogna cambiare, fare un atto di fede nel futuro. Prendiamo Cipro: ottanta anni di dominazione inglese hanno reso il popolo cipriota biligue, e una delle due è la lingua del commercio internazionale. Idem per Malta. Ai sardi invece è toccata la diglossia con l’italiano, che come lingua veicolare non vale granché.
Il deficit di vero rinnovamento delle classi dirigenti è quel che più potrebbe frenare la credibilità delle proposte della classe politica sarda. Come pensa, concretamente, che si possa superare questa difficoltà?
L’umorista tedesco Karl Valentin ipotizzava il teatro obbligatorio come strumento formativo per i giovani tedeschi. Ecco, a me piacerebbe l’emigrazione obbligatoria. Siamo, tra tutti i popoli insulari mediterranei, quello più restìo a muoversi. Non parlo di viaggi, parlo di uscire per stabilire ponti, vite, relazioni. Trovo che i politici sardi siano in genere pagu bessidos. Forse perché l’arte della coltivazione dell’orticello politico non lascia in genere molto altro tempo, e si sa che “chi va a Roma perde la poltrona”.
Ora si parla di Pd sardo, federato con Roma. Una proposta che Cabras e Maninchedda lanciarono già a inizio di questa legislatura. Non le pare che questa proposta arrivi fuori tempo massimo? Lei come la giudica?
Credo che si tratti di nominalismi, di riverniciature estetiche. Nelle quali gli italiani eccellono, per carità, sono bravissimi nel restyling. Ma a noi sardi spetta il dovere di essere più concreti. L’“operazione Ultima Cena” di cui parlavo prima è un restauro profondo, non una ripitturata.
La lingua sarda può essere una chiave culturale e politica?
Lo è, e lo deve essere. Con quel pizzico d’intolleranza draconiana della quale siamo stati vittime noi, a parti invertite, quando ci hanno imposto l’italiano. Vivo in Quebec e vivo ogni giorno il miracolo culturale di una scuola e di una politica che hanno saputo arrestare e invertire il declino di una lingua ormai data per morta. Si può fare.
Si chiede mai come sarà la nostra terra fra cinquant’anni?
Con i bambini che nascono oggi nel ruolo di noi ultracinquantenni. Sembra una battuta, ma quel che voglio dire è che ho una fiducia immensa nelle nuove e nuovissime generazioni. Come vorremmo fosse la Sardegna tra cinquant’anni lo decidiamo noi oggi, nelle famiglie e nelle scuole sarde.
Analisi e pensieri di grande valore. Complimenti.
Concordo al 100% sulla principale causa e limite del nostro sotto-sviluppo: il fatto di essere prevalentemente pagu bessidos non solo tra i politicotti locali, ma anche tra i sedicenti intellettuali di casa nostra!
Essersi affermati con il proprio merito fuori dall’Isola (non certo in un comodo posto pubblico deciso dalla politica), dovrebbe essere un requisito fondamentale per scegliere coloro che potranno toglierci dal pantano di corruzione, nepotismo, burocrazia e avversione per il merito in cui da troppo tempo ci troviamo.
Molto condivisibile anche il rammarico e dolore per la nostra lingua e cultura che sta morendo: il regime fascista prima e la scuola amministrata e diretta da sempre dalla sinistra hanno dato un colpo mortale alla nostra lingua e cultura, per far posto ad una lingua che ha scarsissimo valore al di la dei confini della piccola Italia.
Saluti
Cumprimentu! Anche i ragionamenti che sembrano luoghi comuni, se riportati in “quella maniera” hanno molta importanza per farne una proposta per un confronto interessante