Cristina Cabras è docente di psicologia sociale nella facoltà di Studi umanistici dell’Università di Cagliari, docente di Psicologia giuridica e criminologia, direttrice del Master di I livello in Gender Equality- strategie per l’equità di genere, e del Master di II livello in Perizie e Consulenze Psicologiche in ambito Civile e Penale.
Con lei affrontiamo alcune delle tematiche che maggiormente occupano la cronaca in queste settimane.
Violenza di genere, dinamiche di gruppo, spesso moltiplicate da un disinvolto utilizzo dei social. È questa l’emergenza socio culturale del momento?
Aggressioni verbali, fisiche, sessuali sono quotidianamente presenti nella cronaca degli ultimi mesi. C’è un’attenzione particolare dei media nella divulgazione di queste notizie e, se da un lato, questo è utile per aumentare la consapevolezza e la reazione sociale, dall’altro potrebbe aumentare il rischio di emulazione negli adolescenti. I social network sono utilizzati come strumenti di amplificazione immediata dei comportamenti violenti e la dimensione pubblica dei social è una condizione necessaria per nutrire il sentimento di onnipotenza che agita gli attori di tali atti.
Lei ha chiarito che la violenza messa in atto da studenti e studentesse non è bullismo né un fenomeno da derubricare a ragazzata. Cos’è, allora?
Il bullismo è un fenomeno che si sviluppa nella relazione tra pari. Implica intenzionalità, ripetitività e squilibrio di potere. Pertanto non possono essere definiti atti di bullismo gli episodi di aggressione verso gli insegnanti. Questi sono veri e propri comportamenti devianti e delinquenziali, ancor più gravi di altri perché rivolti da un minore verso un’autorità. Vanno ricondotti al bisogno di conoscere limite al di là del quale non è consentito andare, tipico degli e delle adolescenti, alla sfida nei confronti dell’autorità, al bisogno di contenimento. Assistiamo invece a reazioni del tutto inadeguate da parte degli adulti che minimizzano, giustificano, deresponsabilizzano.
In quale maniera, di fatto, le agenzie educative pubbliche hanno assecondato la tendenza a superare un sistema di “punizioni” o sanzioni appropriate a seguito di comportamenti scorretti?
Da almeno un trentennio assistiamo impassibili al disinvestimento della società nei confronti delle agenzie educative, della scuola in particolare. Si è promosso un sistema che, nel tentativo di sostituire l’autorità con l’autorevolezza e la leadership, ha di fatto prodotto uno stile di gestione delle relazioni di tipo laissez fair. Non ci sono più regole educative né autorità riconosciute, tutto è delegittimato in nome di una maggiore libertà di espressione e sviluppo di sé. I comportamenti negativi e devianti (chi ha più il diritto di categorizzarli come tali?) non sono puniti ma giustificati. Si ha paura di stigmatizzare, di mettere ordine, di assumersi la responsabilità di una scelta educativa. Di dire no. Di dire basta. Di allontanare. Le norme sociali sono considerate relative e scarsamente riconosciute, a vantaggio di un maggiore spazio di comunicazione per la propria identità reale e virtuale.
Le conseguenze sono sotto i nostri occhi ma, malgrado tutto, ci ostiniamo a non volerle guardare.
Perché fare l’insegnante è diventato quasi una professione a rischio? Come ci siamo arrivati?
L’insegnante oggi deve fronteggiare le conseguenze determinate dal disimpegno sociale nei confronti della istituzione che rappresenta. La sua autorità è costantemente messa in discussione, il ruolo mortificato dalle continue, poco efficaci e improduttive riforme, la sua professionalità svilita da continue e incongrue richieste. Per non parlare del lato economico. E’ una professione in cui anche l’incolumità fisica è messa a repentaglio da alunni e alunne oltre che dai genitori. Una situazione oramai insostenibile.
E come si può chiudere la stalla, una volta che i buoi hanno iniziato a scappare?
C’è bisogno di un restauro o meglio di una restaurazione. Bisogna ridefinire i confini, su tutti i livelli.
Come si possono ridefinire i confini tra norma e devianza, lecito e illecito?
Dobbiamo partire dal risultato che vogliamo ottenere e mettere in campo risorse sufficienti per arrivare al traguardo. Se intendiamo far rispettare la norma e promuovere la legalità non possiamo farlo delegando alle associazioni di volontariato o alle fiaccolate le giornate di sensibilizzazione sul tema. C’è bisogno di investire prima di tutto su chi, all’interno della scuola, quotidianamente, rappresenta l’autorità, dobbiamo valorizzare il ruolo dell’insegnante, è necessario introdurre sistemi premiali per insegnanti e allievi/e, favorire e supportare la formazione e la selezione del personale, ricostruire un rapporto scuola-famiglia che sia fondato sul primariato della scuola. Se non partiamo da questi elementi che considero fondamentali, continueremo a dare segnali ambigui e confusi. Terreno fertile per devianza e illeciti.
Perché spesso gli adulti – genitori o insegnanti che siano – tendono a minimizzare l’accaduto?
Lo fanno per difendere, proteggere i/le minori, evitare di mettere in discussione i loro sistemi educativi e quindi se stessi. Non sanno, però, che la minimizzazione del danno, la negazione della propria responsabilità, la colpevolizzazione della vittima, la condanna di coloro che condannano, il richiamo ad ideali più alti sono tecniche note nella letteratura criminologica come “tecniche di neutralizzazione”, distorsioni cognitive che rappresentano la culla di qualunque comportamento delinquenziale. David Matza docet.
Perché persone a prima vista timide e misurate nella vita reale, spesso anche con ruoli nelle agenzie educative, quando si trovano a loro volta in “branco”, sui social, arrivano a innescare o a partecipare a fenomeni di “bullismo” virtuale?
Il nostro comportamento è funzione della interazione tra più variabili. Una di queste è l’ambiente. I social rappresentano un ambiente virtuale che riduce in modo esponenziale la capacità di controllo del nostro comportamento e grazie alla schermatura rappresentata dal mezzo usato (smartphone, netbook…) ci permette di abbattere le barriere che invece sarebbero presenti nella situazione “faccia a faccia”. Nel gruppo sono presenti dinamiche che consentono di esprimere comportamenti che sono frutto della dinamica stessa. Il singolo pertanto può esprimere comportamenti che non sarebbe in grado di esprimere se si trovasse nella medesima situazione da solo. Per questo motivo sarebbe utile “addestrare” minori e adulti all’autocontrollo e a dire “no” anche in situazioni di gruppo reale e virtuale.
Questo significa che, nella società contemporanea, certe dinamiche non governate possono essere comuni ad educatori ed “educandi”?
Certe dinamiche si presentano sia nei gruppi di adulti che di minori. Spero che ci sia responsabilità e consapevolezza almeno nelle educatrici/educatori.
Come se ne esce, in sostanza?
Non servono miracoli. Riprendiamo a dare valore alle regole, al rispetto, alle e agli insegnanti, alla scuola.
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