La Sardegna che verrà ha bisogno di investimenti in cultura e coraggio.
Cultura per ridare speranza e far uscire la massa silenziosa dalla paura di perdere lo status quo e coraggio per affrontare il necessario trauma – perché senza traumi non si consumano le rivoluzioni – che serve a cambiare per poter ripartire.
Oggi il problema è che alla classe politica manca un’idea di Sardegna, un modello socio-economico organico e integrato fra i territori, che preveda un patto generazionale fra le forze più sane, tra il centro e la periferia, tra le nostre poche città e i nostri tanti paesi, che formano un continente.
Una missione comune, una strategia capace di dare speranza – nella giustizia – a tutti quelli che speranza non ne hanno più.
La mancanza di un modello di sviluppo organico, di un’idea alternativa capace di affrancarci da questo stato di emergenza continua, causa quel che vediamo: non siamo padroni della nostra mobilità, non abbiamo voce in capitolo sulle scelte energetiche e persino sull’utilizzo a fine militare di vaste porzioni di territorio.
Siamo un po’ statalisti, un po’ anarchici, un po’ a vocazione turistica e un po’ a vocazione industrial-fallimentare, capaci di indignarci per un’idiozia detta dal Briatore di turno ma incapaci di cogliere le quotidiane bardane delle lobby.
Anzitutto perché non abbiamo mai saputo o voluto scegliere di avere voce in capitolo. Perché è sempre stato più facile delegare, pensare che si sarebbe potuti vivere all’infinito di assistenza e spesa pubblica.
Parlavo di missione comune e di patto generazionale, necessario per uscire da questa degenerazione oramai fuori controllo.
Ebbene, questo patto non può essere né stipulato né portato avanti dalle famiglie politiche del bipolarismo italiano (né tanto meno da improvvisati e autoproclamati sovranisti che applicano modelli di governo e di gestione del potere che sono propri della politica politicante) che, nei fatti, hanno dimostrato di non avere né le idee, né la volontà, né la possibilità di garantire il sardo-centrismo necessario a iniziare un cammino nuovo, finalizzato ad applicare modelli culturali, sociali, economici che, partendo dall’identità comune e dalla vocazione di una terra che ha caratteristiche ambientali e paesaggistiche che non debbono essere snaturate, possono e devono coniugarsi alla modernità e allo scambio attivo con il resto dei Paesi mediterranei ed europei.
La responsabilità di questa svolta è in capo alle forze più sane della nostra società, a giovani classi dirigenti che spesso sono bloccate dalla convenzione e dalla convenienza.
A loro è richiesto uno sforzo di coraggio e generosità, affinché possano cogliere le opportunità date dalla crisi della vecchia rappresentanza politica. Senza più complessi di inferiorità, auto-razzismi e auto-colonialismi e provincialismi.
A loro è imposto di guardare al 47% dei sardi che nel 2014 non è andato a votare alle regionali e ai tanti, tra quelli che sono andati, che non si sono voluti rassegnare a proposte già sperimentate e oramai stanche e senza prospettiva, se non quella della gestione del potere, dell’inciucio trasversale, dell’occhiolino strizzato ai soliti noti e delle blandizie ai poveri, ai ricattati, ai precari resi tali con calcolo e meditato interesse.
Alla nuova classe dirigente è richiesto di farsi garante di un patto tra chi – partendo da posizioni indipendentiste ispirate a un ammirevole amore per la propria terra e alla giusta condanna per il trattamento coloniale al quale questa è sottoposta – non ha mai seriamente pensato di potersi assumere l’onere del governo di questa regione, condannandosi a una pura testimonianza, quando non al folclore dell’irrilevanza.
Per queste forze è arrivato il tempo di massimizzare il consenso, di rinunciare al comodo ruolo dei disturbatori, per partecipare al patto generazionale per una Sardegna nuova, assumendosi una porzione di onere del governo e della mediazione, dell’accordo con tutte le parti della società civile che intendono mettersi in gioco, sia impegnandosi per la prima volta che reinventando la propria esperienza, convergendo su un comune programma di governo, che dovrà giocoforza avere un respiro di quindici, venti anni.
E che, per questo, dev’essere aperto a una successiva inclusione, che preveda anche una revisione figlia del coinvolgimento di chi, inizialmente schierato con lo status quo, vorrà e potrà successivamente dare il suo contributo.
Lo dovranno fare sforzandosi di privilegiare quel che unisce e non quello che divide. Perché la Sardegna di oggi ha le potenzialità per mettere il rete le esperienze di una parte della sua giovane classe dirigente, proveniente dalla società civile, imprenditoriale, associazionista, sindacale e quelle di una rinnovata rappresentanza di giovani amministratori locali che quotidianamente mostra coraggio, dedizione, attaccamento alla propria comunità e voglia di cambiare.
Questa è la speranza, questa è la strada che – cinquant’anni dopo le “eretiche” ma illuminate profezie di Antoni Simon Mossa – dovremmo provare a percorrere dopo tanto tempo perso e tante carriere costruite sul nulla, alle spalle di chi, inconsapevolmente, si è fatto strumento della partitocrazia e di una classe politica che ha avuto come priorità la difesa degli interessi di Roma in Sardegna invece che di quelli della Sardegna a Roma, in Europa e nel mondo.
Costruiamo un’Isola moderna, più giusta, più solidale, che tuteli le sue tante piccole patrie e non abbia più paura di considerare sardo chiunque ama la Sardegna e scelga di viverci, senza discriminazioni e anti-storiche chiusure.
Bene meda, Anthony!
Cundivido totu su chi as nadu e pro andhare in custa filada tocat a fàghere deabberu meda: coltivare s’isperàntzia, sa fide, s’istima, su corazu, sas capatzidades professionales, políticas e amministradoras, s’onestade sociale solidale, sa libbertade/responsabbilidade, ca est de séculos chi nos ant coltivadu e allenadu (e nos semus coltivados e allenados) a dipendhentes cun totu sas cusseguéntzias de sa dipendhéntzia.
E in su sensu de sa libbertade/responsabbilidade no bastat ne unu “blog” e nemmancu unu a donzunu coment’e zente chi no si cheret faedhare e coment’e chi sa zente che istet intanada in sa “rete” sempre a tastiera in manu e a ogros a su monitor.
Sa faina de fàghere (chentza pònnere in dúbbiu totu s’utilidade de internèt) est meda fora puru e in su matessi tempus (e chentza èssere unu “doppione”) e sa cultura de fàghere no pertocat solu sa zoventude prus informatizada. Si podiat fàghere nessi unu mensile-mesa de informatzione, istúdiu, formatzione, discussione, propostas e organizatzione de initziativas, cultura in su sensu prus largu e valorizendhe su chi menzus distinghet sos Sardos e totu sa Sardigna e coltivet s’unidade netzessària a unu pópulu cun s’ispera-cumportamentu-fàghere pro èssere mere de sos fatos suos pro su tantu chi si podet (oe in d-unu mundhu-mundhu).
Tenzo unu dúbbiu mannu però candho manizas su cuntzetu de “avere voce in capitolo”. In cale “capitolo”? Si su “capitolo” est su Guvernu italianu, s’Istadu italianu, nois no resessimus a cumprèndhere ite cheret nàrrere a èssere e iscumpàrrere in busaca de s’Itàlia! No cumprendhimus su segamentu de ancas chi est s’Itàlia! No cumprendhimus chi in Itàlia sa Sardigna no bi est, politicamente cantu no bi est geograficamente si no pro s’efetu de totu sos terremotos e bombardamentos suos de donzi zenia!
Chentza pessare si no a cumportamentos e fàgheres demogràticos possíbbiles a donzi sardu de assumancu duos a chent’annos (ma sa ‘cosa’ comintzat innantis de àere fizos!), resessimus a pessare chi sas chistiones cun s’Itàlia las depimus pònnere in manera séria e firma e no coment’e murrunzadores pedidores de professione ingabbiados in sas busacas suas e de sos partidos suos, e prenos de birgonza e de timoria e pedidoria e pérdidos in totu sos labbirintos suos?
Sos Sardos resessimus a cumprèndhere totu sos ‘bisonzos’ de s’Itàlia e a abbassiare sa conca fintzas a terra acuntentèndhennos de su chi li ruet dae manos candho su muenti est mortu de s’arrisu, ma no resessimus a cumprèndhere sos bisonzos nostros meda prus elementares e fàtziles e apretosos.
Sighimus a zogare a fàghere bucos in s’abba ifatu de s’Itàlia brusiendhe fide isperàntzia e caridade in sas istitutziones suas e brusiendhe donzi aficu bonu nostru cun d-una Sardigna rica de benes?
Nois depimus cumprèndhere chi in busaca de s’Itàlia noche sighimus solu a ispèrdere e a brusiare s’ideale de àere triballu e vida dignitosa e digna de zente in logu nostru, ca semus ponindhe in manos anzenas su chi depet èssere in manos nostras onestas capatzas e responsàbbiles.
Muroni, sei patetico, il tuo è astrattismo.
Bellissime riflessioni
Nel leggerle ho provato fiducia perché sono scritte da chi fino a un anno fa lavorava nell’Unione Sarda, quotidiano che è stato spesso complice dell’attuale situazione
Ottimo Direttore: lavoriamo su quello che ci unisce per conquistare tutti coloro (ben oltre il 50%) che vogliono abbattere il sistema attuale di scambio favore-voto che ha distrutto la nostra Isola e che continua a fare immensi danni, obbligando tantissimi nostri fratelli (che non si sono chinati ai ricatti dei politicotti attuali) ad emigrare.
E’ chiaro che chi detiene il potere oggi e ne ha fatto da sempre unica fonte di esistenza (politici di professione), non mancherà di mostrare tutta la propria meschinità per cercare di mantenere il potere e autoconservarsi.
Saluti e coraggio