(Pro lèghere s’artìculu in sardu pùnghere subra sa bandera in artu)

Le Province sono mostri destinati all’estinzione? Hanno ancora ragione di esistere? Con quale ruolo e compiti?

Negli ultimi anni sono stati adottati una serie di provvedimenti sull’ onda di una emotività riformista di stampo “populista” che ha dell’incredibile.

Il continuo mutamento delle regole giuridiche non sempre però corrisponde alle reali esigenze di un paese, anzi spesso crea confusione anche tra gli addetti ai lavori e quindi di qui la necessità di intervenire continuamente con circolari interpretative, linee guida e quant’altro necessario per districare la contorta matassa normativa. In alcuni casi, il legislatore è sembrato più interessato all’attività di revisione in sé e per sé che ai suoi esiti.

Le stesse istanze proposte come riformiste ( forse anche nel tentativo di arginare il populismo) hanno rappresentato un vero e proprio attacco all’organizzazione della pubblica amministrazione e alle sue rappresentanze politiche.

Questa foga demolitoria modaiola si è presentata con diverse facce. Alcune volte come movimento anti -casta contro i privilegi veri o presunti dei politici per cui andava rottamato tutto ciò che non era funzionale al rinnovamento che la società richiedeva.

Altre volte, con interventi neo-liberisti in economia sedicenti indispensabili per la ripresa, abolendo importanti tutele dei lavoratori e precarizzandone una larga fetta con la voucherizzazione della prestazione lavorativa.

Nel metaforico calderone rottamatorio, ci finirono anche le Province considerate degli enti inutili. L’esigenza dichiarata per la loro abrogazione era quella del contenimento della spesa pubblica propugnata come panacea di tutti i mali e sufficiente a giustificare la riduzione dei servizi ai cittadini.

Così ebbe origine una vero e proprio sventramento delle Province, prima politico e poi amministrativo, alimentato dalle stesse forze politiche di governo che mai dovrebbero emotivamente seguire derive populiste.

La Sardegna fu regione “apripista”, in quanto a foga demolitoria. Il 6 maggio 2012 si erano tenuti in Sardegna dieci referendum per tagliare i costi della politica. Tra questi alcuni quesiti abrogativi riguardavano l’abolizione delle province “regionali” (Carbonia-Iglesias, Medio Campidano, Ogliastra, Olbia-Tempio), mentre per la cancellazione delle province storiche – vincolate dalla riforma costituzionale – si era istituito un referendum consultivo e la maggior parte dei votanti si espresse a favore dell’abolizione di tutte le province.
A questo referendum seguì la legge nazionale e quella regionale sul riordino del sistema delle autonomie locali e il quadro normativo si è complicato.

Innanzitutto le province di Sassari, Nuoro, Oristano e Sud Sardegna sono diventate enti di secondo livello con un consiglio, un presidente e degli assessori che si chiameranno consiglieri delegati. È stata istituita ed è già operativa la città metropolitana di Cagliari che insieme ad altri 16 comuni rappresenta una nuova importante realtà e di nuova istituzione sono anche la rete metropolitana, la città media e la rete urbana.

Particolarmente rafforzata dalla riforma, è stata poi l’unione di comuni ( minimo 10 mila abitanti e quattro o più comuni contermini), pensata per venire incontro alle richieste dei territori, anche di quelli che hanno da sempre lamentato che lo status di Città metropolitana fosse una prerogativa solo di Cagliari.

Alla luce di questa nuova architettura istituzionale, è evidente che non è proponibile sic et sempliciter un ritorno al passato. Sarebbe deleterio e produrrebbe maggiori danni di quelli che avrebbe prodotto, se fosse passata la riforma.

Non c’è dubbio che l’esito referendario pone il problema di una loro riqualificazione, anche perché a dirla tutta le Province erano in crisi d’ identità già da molto tempo e l’esigenza di un loro rinnovamento era ed è reale. Sempre che si ritenga che abbiamo ancora un ruolo importante.

Quale possa essere questo ruolo è la stessa legge di riordino regionale che lo dice quando prevede gli “ambiti territoriali strategici”. Infatti, non potendo escludere un livello di pianificazione strategica di area vasta , introduce questi ambiti che altro non sono che il raggio d’azione delle province che di li a poco sarebbero state cancellate ma che sono sopravvissute.

Veramente qualcuno può pensare che sia sufficiente, visto l’ esito referendario, rinnovare i già inutili consigli provinciali così come strutturati, eletti per giunta con elezioni di secondo livello ? Vogliamo che le province abbiano, oltre le funzioni amministrative previste per legge, anche un ruolo e compiti politici? Ed in quest’ultimo caso, non sarebbe auspicabile un ritorno alla elezione diretta dei suoi organi politici?

Bisogna fermarsi e riflettere, non lasciarsi trascinare dalla emotività legislativa che ha caratterizzato gli ultimi anni e creare le premesse perchè le Province siano realmente utili per i cittadini, svolgendo un ruolo di programmazione e di raccordo istituzionale all’interno del proprio ambito territoriale.