Con la speranza di trovare un po’ di spazio torno sull’argomento del 9 di questo mese, in merito alle difficoltà che stanno attraversando le nostre tradizioni popolari.
In molti avete letto l’articolo, molti di più di quelli che pensavo, e qualcuno mi ha fatto capire che avrebbe avuto piacere a ritrattare l’argomento.
Perché no. Comincio dicendo che non intendo indicare chi è nel giusto e chi no, non è quello il problema. Il problema lo sintetizzo con la foto che pubblico, così come la volta scorsa: una fanciulla che guarda il passato che sembra svanire in lontananza.
Stiamo vivendo un tempo in cui per modificare le usanze intaccando “su connottu” ci vuole un attimo mentre anticamente accadeva di rado e con fatica, e ciò poteva accadere perché c’erano i vecchi, con la loro saggezza, a fare strenua difesa.
Se qualcuno contesta quanto dico, è in malafede. Oggi per modificare un’usanza, un costume, un ballo, un canto.. basta andare da un’altra parte, guardare cosa fanno gli altri, osservare se quello che fanno piace alla gente, e il gioco è fatto.
Al rientro in paese via a mettersi in regola, al passo con gli altri, aggiungendo “quello che piace”. Sottolineo la cosa e lo faccio sillabando le parole: accade…. dovunque.. più.. o… meno..
Questa è la verità, e se lo dico è a ragion veduta, da esperto, dall’esperienza che mi deriva dagli anni “vissuti sul campo” e che mi consente di dire che già una trentina di anni fa accadeva di meno.
A conferma di quanto dico riferisco che, “un’esperta del settore – leggasi ISRE”, invitata a commentare in tv una “sfilata” di costumi, è stata aspramente contestata per aver fatto delle considerazioni assolutamente doverose.
Ripeto “un’esperta” non una qualunque. Mancati i vecchi, i grandi di età e di saggezza, finito tutto o quasi. Loro si accostavano all’evento con rispetto sapendo che andavano a rivivere un ramo dell’autorità del tempo, conosciuta da sempre, di cui si aveva religioso rispetto.
Quel modo di pensare e di agire è svanito, ed è quello il problema, e se continuo non so dove vado a parare. …. “Qui si vuole cristallizzare la tradizione a uso di noi attuali… La tradizione si evolve a seconda dei bisogni del presente…” … Senza offesa, si tratta di parole pensate a tavolino, che al tempo passato non riconoscono “l’autorità” che gli è dovuta. Tornando all’argomento principale, vi faccio una domanda.
Per esempio ammettiamo che ereditiate un anello prezioso, appartenuto a persone a voi care, un anello da conservare come bene prezioso, per valore e affetto. Un bene da passare di mano a chi verrà dopo, per una continuità e appartenenza.
E allora, me lo sapete dire per quale motivo lo stesso riguardo non dovrebbe essere usato anche con le nostre tradizioni più antiche, quelle che sono appartenute a SOS MANNOS che vuol dire antenati? Perché quel bene prezioso non è considerato tale? Perché per conservarlo nel tempo lo dobbiamo mutare? Perché per restare in vita lo dobbiamo ammazzare (perché è questo che avviene)? Ve lo ripeto, ho conosciuto e vissuto feste tradizionali che sono diventate un’altra cosa.
Tanto per dirne una: “su mortu mortu” in tanti paesi è scomparso per diventare Halloween con buona pace di tutti. Ma alla disperazione che incontra chi vorrebbe studiare le tradizioni più antiche ci si pensa? Le tradizioni dove ancora potrebbero restare briciole dei tempi più remoti? Ma se continuiamo a distruggere i sentieri che conducono alle origini della nostra ascendenza, come si fa a pretendere che si riesce a portarle alla luce?
Vi faccio un’ultima domanda. Max Leopold Wagner, mai sentito nominare? Lo studioso tedesco che era venuto in Sardegna ai primi del 900 per studiare le nostre lingue e le nostre tradizioni (proprio perché di valore)? Lingue e tradizioni meritevoli di attenzione perché ancora ben conservate e custodite? Secondo voi, trovandovi a quei tempi la confusione di adesso, avrebbe perso tempo, sacrificio e denaro per portare avanti il suo lavoro? Credo di no!
E senza il suo capolavoro, vero schiaffo morale di uno straniero alla nostra dabbenaggine, secondo voi la conoscenza della nostra lingua tradizionale come sarebbe stata? Quante parole sarebbero scomparse e quante sarebbero il risultato di una traduzione dall’italiano al sardo per “sardizzarle”?
Lascio a voi la risposta. Pensate a quell’anello e convincetevi che possa essere una tradizione locale da tramandare ai posteri, come bene prezioso. Se non la pensate così, lasciateli perdere i discorsi che sanno di “appartenenza” perché vorrà dire che, senza offesa, non sapete nemmeno di cosa state parlando.
Il sole che tramonta si accompagna sempre alla sensazione della caduta, della fine, della morte. Nessuno può mai aver certezza che dopo alcune ore il sole risorga in fogge forse anche più belle e splendenti di prima.
La nostalgia è questa: il ricordo dolce di un qualcosa che si è amato, frammisto all’amaro della perdita di quel che probabilmente mai più tornerà ad essere come prima.
Un tesoro va vissuto intensamente, diversamente è solo una vetrina che fa bella mostra di sé. Noi non viviamo più le tradizioni, le osserviamo, ed osservandole, le alieniamo da noi stessi.
Eppure, credo che possano esserci nuovi modi di viverle intensamente.
Credo che lei, Franco Stefano Ruiu, può aiutarci a viverle con la stessa intima intensità di un tempo. Forse non è ancora giunta l’ora del tramonto, o forse, più semlicemente, il buio che vede annuncia una nuova alba, ma lei non può privarci di occhi allenati per vederla.
Che tristezza questi suoi due scritti.
Un saluto da chi ama questo sandalo.
Visto che l’amico Stefano per la lingua cita Wagner, io citerei per le tradizioni popolari Karlinger, illustre sconosciuto ma anche lui amante della nostra terra. E vale lo stesso discorso di Stefano, sarebbe venuto oggi Karlinger “trovandovi la confusione di adesso avrebbe perso tempo, sacrificio e denaro per portare avanti il suo lavoro?” Anche io credo di no. Questo studioso, poco conosciuto, è stato profetico. Leggiamo infatti cosa scriveva in merito alla reazione dei sardi alla vigilia del più grande saccheggio culturale della loro storia: “Nei confronti della penetrazione degli influssi esogeni, delle novità sconvolgenti rivelate soprattutto dalla radiodiffusione, la persona semplice delle regioni interne è abbandonata a se stessa, e nel suo sforzo di assimilarsi alla nuova situazione, si distacca con violenza dalla tradizione. L’«arretratezza» che le viene rimproverata – in determinate questioni igieniche ed economiche a ragione – suscita in alcuni sardi un tale complesso di inferiorità che cercano di superare cercando di concentrare nelle forme e nelle possibilità espressive del nuovo mondo la freschezza della loro natura e la forza della loro anima non deformata. Al Sardo non basta modernizzarsi, egli vuole compiere cose straordinarie in tutti i campi e non essere da meno ri-spetto al continentale. E proprio nel mondo della musica questo si manifesta in modo particolarmente forte perché questa, attraverso il processo di elettrificazione, penetra nell’isolamento del suo mondo in misura maggiore rispetto ai problemi artistici o dell’abbigliamento.” https://www.sardinnia.de/it/i-libri/volume-11-felix-karlinger-sa-musica-sarda-1955/
Buongiorno,
Ho letto il suo articolo e apprezzo la volontà di salvaguardare le tradizioni sarde, ma non sono d’accordo con diversi passaggi.
Sicuramente non amo anche io le derive ostracizzanti che la cultura della “modernità”, diffusasi in Sardegna all’indomani del boom economico degli anni ’60, ha manifestato in vari campi. Infatti i sardi, pervasi da un latente complesso di inferiorità, hanno percepito la tradizione come l’ostacolo principale al benessere, alla modernità, al superamento di quella perenne condizione di miseria, perché si, a differenza di ciò che l’idillio romantico vorrebbe far credere, il passato dei sardi è un passato di difficoltà, di miseria, di lavoro durissimo e di frugalità.
In un mondo sempre più collegato, veloce, informato, tecnologico e ricco, trovo che il bisogno di cambiamento che nacque in quegli anni sia assolutamente comprensibile, dannoso nelle sue esasperazioni, ma pur sempre comprensibile.
Oggi lo stesso processo ha preso due direzioni differenti: da una parte continua la deriva verso i modelli della globalizzazione, verso una società più fluida e multiculturale, dall’altra parte è nata l’esigenza di riscoprire e conservare le tradizioni antiche; un atteggiamento quest’ultimo doveroso e urgente, viste le esagerazioni in senso opposto degli anni passati, ma che rispetto al passato non ripristina una reale continuità, ne da piuttosto l’illusione. Questo perché la tradizione e i costumi, se non spontanei, vissuti nel quotidiano, assorbiti lentamente durante le tappe della vita, non sono altro che folklore, nient’altro che teatrino da sagra paesana, che vetrina per i turisti. Alcune tradizioni sopravvivono perché compatibili con lo scenario attuale, altre si spengono o rimangono solo nei copioni dei vari commedianti, perché non sono più compatibili con la vita moderna, con il mondo che conosciamo oggi.
Il cambiamento è inevitabile e forse oggi ciò che è più disorientante è la rapidità del cambiamento. Le tradizioni e le ricorrenze romane e pagane in generale sono state spazzate via dal cristianesimo, o ne sono state rielaborate. A loro volta i romani avevano assimilato e trasformato le tradizioni delle altre popolazioni italiche come gli etruschi. La differenza è che nel passato tutto era molto più lento e graduale.
Wagner e Gli altri studiosi tedeschi che si interessarono alla Sardegna, non lo fecero perché le tradizioni e la lingua sarde avevano la particolarità di essere appunto sarde. Avevano la caratteristica di essere molto arcaiche e conservative, in relazione ad una contesto europeo molto più evoluto e influenzato da tutte le correnti culturali, sociali e artistiche nate e cresciute nel suo seno. La Sardegna invece era una specie di giardino dell’ex en per gli antropologi e i linguisti, il viaggio in Sardegna nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento, per un tedesco era un viaggio nel tempo, una finestra sul medioevo.
Quindi eviterei confusioni. La cultura sarda aveva un grande valore in quanto estremamente arretrata. Non abbiamo dato origine al rinascimento o alla rivoluzione industriale, siamo semplicemente rimasti uguali a noi stessi per secoli. Una cosa estremamente affascinante e estremamente tragica allo stesso tempo.
Da sardo amante della Sardegna dico che dovremmo conservare il più possibile senza diventare pateticamente folkloristici, dovremmo essere cittadini italiani, europei e del mondo sempre portando dentro di noi lo spirito orgoglioso, concreto, onesto e schietto che ci contraddistingue. E, per quanto possibile, preservare la nostra lingua sarda, il legame con la terra e i cicli della natura e della vita. Ma nel complesso è inutile e forse dannoso aggrapparsi ad al passato pensando che solo in quel modo saremo capaci di resistere al mondo.
Mi sia consentita una replica, sempre che le osservazioni di Enrico, che condivido alla grande, siano rivolte al mio articolo. Mi permetta una domanda. mi va bene tutto quello che ha detto, ma “quell’anello” che porto ad esempio, è giusto conservarlo così com’è, come anello, o portarlo all’orafo, chiedendo di fonderlo insieme ad altri gioielli, per farne un bracciale? Il problema è quello. Quell’anello valore ne ha? Se si, perchè farlo diventare “altro”? Se non ti interessa “lanello” e vuoi fare qualcosa. Non farlo in quel campo, fai altro, non te lo dice nessuno di “fare” convinto di rispettare le usanze. Su Tenore di Bitti ha accettato il confronto con Peter Gabriel. Ne ha colto l’occasione per far conoscere il nostro modo di cantare nel mondo. Una volta finito “il connubio” sono tornati all’antica e sono diventati patrimonio dell’UNESCO. Lo sapete che cantano “a tenore” giovani americani negli USA e giovani cinesi in casa loro? Evidente che ne hanno riconosciuto il valore unico e raro. Il Canto a Tenore, non il canto a Tenore con Peter Gabriel. Volendo si può. E’ l’onestà intellettuale quella che conta, e quella non è folklore ma rispetto.
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Salve Franco, grazie per la sua gentile replica.
Sono d’accordo con quanto ha scritto. In un certo senso è proprio ciò che intendevo nel precedente intervento: le tradizioni vanno alimentate e coltivate finché riescono ad essere lo specchio nel quale scorgiamo la nostra immagine riflessa, finché rappresentano i nostri fondamentali strumenti di identificazione.
Per questo l’anello a cui siamo affezionati fuso e trasformato in un paio di anonimi orecchini è un esempio calzante. Se snaturiamo una tradizione difficilmente rappresenterà il continuum culturale che era una volta. Quindi, secondo il mio punto di vista, non dobbiamo avere l’ansia di essere diversi da noi stessi, dovremmo smettere i panni delle vittime della storia e vivere serenamente il rapporto con il nostro passato. Noto però che oggi ci sono forti spinte alla riappropriazione di costumi del passato, e benché io creda che sia possibile una rielaborazione “pilotata” delle tradizioni popolari, non sono affatto sicuro che una tradizione, al risveglio da un lungo stato di coma, possa essere considerata integra, originale, autentica.
Il canto a tenore è un esempio felice di promozione culturale e di conservazione della tradizione.
Carissimo Enrico, così mi piace, così si dialoga e non a forze contrapposte come purtroppo mi capita spesso di fare. Forza Paris, Enrì, che a manu tenta forse riusciamo a salvare il salvabile.