Nei giorni scorsi ho scritto dei “No” che, al di là delle emergenze e delle contingenze, occorre trovare il coraggio di dire per non essere complici dei disastri del presente e artefici corresponsabili di quelli che si preparano per il futuro.
In molti hanno rilevato che si tratta di analisi interessanti e spesso giuste e condivisibili, altri hanno lamentato il fatto che non ci si può limitare alla denuncia e al “No”, ma bisogna avere il coraggio di indicare strade alternative.
Nonostante non sia il mio mestiere, voglio raccogliere la sfida e provare a portare un contributo a un dibattito che spero ampio, partecipato, costruttivo, competitivo e capace di aprire strade nuove.
Il modello del futuro? Certamente non può essere diverso da qualcosa di compatibile con la storia, la vocazione e gli interessi dei sardi. Un modello “possibile”, insomma.
Per fare il primo esempio, parliamo di agroalimentare e agroindustria, tentando un approccio laico al problema, pur ribadendo il no alla coltivazione intensa dei cardi da olio combustibile, che converrebbe all’Eni (sempre nell’ambito della chimica dipinta di verde) e precluderebbe ogni sviluppo del comparto.
I numeri ci dicono che la produzione interna locale annua di alimenti e bevande, data dalla sommatoria del valore aggiunto dell’agricoltura e dei prodotti dell’industria di trasformazione alimentare, ammonta a poco meno di 1,4 miliardi di euro.
Le spese per gli stessi generi di consumo assommano invece a 3,6 miliardi, con una sperequazione di 2,2 miliardi di euro, capace di indicare il tasso di dipendenza dal mercato esterno.
Oltre 4 mila miliardi di vecchie lire, una percentuale importante del Prodotto interno lordo dell’Isola.
C’è bisogno di un altro numero per certificare l’assoluto sottodimensionamento del comparto?
La capacità di esportazione dell’agroalimentare sardo, rispetto al Pil, si attesta attorno allo 0,38%, contro l’1,91 della media nazionale.
Ergo: in Sardegna non si riesce a produrre nemmeno la metà di quel che si mangia.
Così la quota di reddito destinata ai consumi va a sostenere aziende agricole e di trasformazione che sono fuori dal sistema economico regionale e il valore aggiunto va a imprese della Penisola e dei Paesi dai quali vengono importati i prodotti, così come i vantaggi conseguenti dal punto di vista dell’occupazione.
Perché accade questo?
Una politica seria non si sarebbe limitata a certificare l’esistenza dei problemi ma vi avrebbe già posto rimedio.
Soluzioni? L’assunzione del controllo diretto della filiera dell’attività produttiva – cioé la raccolta alla vendita – determinerebbe l’attribuzione di una quota maggiore del prezzo finale.
Un sostegno robusto alle imprese, che dovrebbero essere aiutate a uscire dall’attuale nanismo, favorirebbe le economie di scala e darebbe una maggiore competitività del sistema.
E una serrata lotta alla burocrazia ci consentirebbe di capitalizzare i sostegni che arrivano – perché arrivano – dall’Europa.
Oggi, spessissimo, tornano indietro o non vengono impegnati.
Che altro?
Si favorisca il superamento dell’eccessiva frammentazione della proprietà terriera, che non consente investimenti in macchine, attrezzature e strumenti tecnologici finalizzati a incrementare la produttività dei fondi.
In questo modo le aziende si affrancherebbero dall’attuale condizione di fragilità e vulnerabilità finanziaria, che le rende deboli quando si presentano in banca a chiedere credito.
E poi un’operazione culturale che possa spingere il sistema – le famiglie, la ristorazione collettiva (mense, ospedali, bar, ristoranti e alberghi) – a consumare sardo.
E perché non pensare al fatto che gli imprenditori del settore possano entrare nel mercato della grande e media distribuzione organizzata (come hanno fatto le aziende dell’Emilia Romagna), preparando e strutturando le loro imprese di produzione e trasformazione affinché mettano a disposizione delle reti commerciali ciò che viene richiesto dai consumatori?
Questa è una Sardegna sostenibile, capace di assecondare le sue vocazioni e, in capo a una ventina d’anni, di iniziare a fare a meno degli speculatori nazionali e internazionali che arrivano nell’Isola a consumare territorio in cambio del già citato piatto di lenticchie e dei posti di lavoro precari, vacui e “avvelenati”, a meno di mille euro al mese.
Questa non sarebbe industria? Lo era quella delle conserviere dell’Oristanese, chiuse all’inizio degli anni Duemila.
Lo era quella di molte altre aziende che sono state sacrificate sull’altare di interessi che fanno capo a grandi gruppi che hanno la sede, la testa, le gambe e il cuore molto lontano dalla Sardegna.
Qualcuno esulta per la concessione del marchio Igp ai culurgiones ogliastrini, sottovalutando quanto argutamente fatto notare nel recente passato dal sociologo Nicolò Migheli in un interessante articolo pubblicato sul sito web dell’associazione Sardegna Soprattutto: si tratta dell’ennesima occasione persa.
Abbiamo ottenuto la certificazione – con tanto di ineffabile timbro europeo – al fatto che si possano produrre buonissimi culurgiones con fiocchi di patate tedeschi, farina ucraina e menta spagnola.
È falso dire che manca un progetto.
La verità è che il piano c’è ed è contrario agli interessi dei sardi: mira a renderci dipendenti non solo sul piano politico ma anche su quello economico.
Chi ha i soldi non ha mica bisogno di fare pressione sugli indigeni: si accontenta di conquistarsi la fiducia, per così dire, dei partiti politici storicamente al governo.
Può bastare – tralasciando tutti gli altri comparti, che meriterebbero una analoga approfondita analisi – per iniziare una discussione costruttiva?
Semus COLONIA.
Fintzas a cando no si rendeus contu ki su problema de so Sardos e dde sa Sardigna, est italia, non ci podet essere perunu sviluppu. Servitù militare e fabbricas inquinantes italianas in Sardigna, (SONO RAGIONI DI STATO) irrinunciabiles. Preferinti assistenziai unu parte dde su populu, castia sos piscadores, bustas pagas mei poligunus, aumentu de costu a sas produtzione locales, fakene dde so Sardos e dde sa Sardigna una sottomissione casi impossibile dde ismantellare. So laureados suno custrintos a partire, su spopolamentu est una naturale cunseguentzia.
S’unicu motivu abbarra su sentidu e sa istima a sa terra ki ses naskidu, ma dde sentidu non campas.
Si no si liberamos dae sas francas dde s’italia semus destinaos a una lenta estintzione.
No serbidi a NUDDA andare a vottare e prus pagu serbidi a intrare in coalizione a dipendenza dde partidos italianos.
Serbidi UNIDADE una guida una sola voke pro essi Liberos e Soveranos.
Sono d’accordo sulla necessità di trovare soluzioni allo spezzettamento delle terre idonee alle coltivazioni agricole per superare il nanismo e le inefficienze delle aziende. Al riguardo suggerirei di poter istituire e dare un contributo regionale al proprietario della terra non coltivata nel momento della vendita al proprietario confinante che sia coltivatore e che acquista con atto pubblico.Il premio al proprietario non coltivatore potrebbe riuscire nell”intento di smuovere il mercato delle terre agricole ma inutilizzate e rendere le aziende più redditizie e competitive.Per quanto riguarda i culurgionis che hanno ottenuto il marchio ritengo che sia un indubbio successo e che sarebbe auspicabile che le organizzazioni dei produttori a cominciare dalla Coldiretti promuovano ed incoraggino i propri soci a coltivare le materie prime necessarie ,alimentando proprio quella filiera della trasformazione dei prodotti agricoli cui si fa riferimento.Il disciplinare in ogni caso prevede la necessità che venga usata una percentuale di patate.Nel frattempo però il marchio sarà servito a salvare la tipicità del prodotto e vincolarne la produzione alla sola Ogliastra.Si prends esempio dai disciplinari della DOC ai vini sardi, se non ci fosse stata quella normativa oggi in Sardegna non avremo avuto la possibilità di difendere la tipicità dei nobili vini che tutti nel mondo conoscono, bevono e apprezzano.Non è successa per esempio la stessa cosa al mirto perché non c’era un marchio idoneo a salvarne la origine e la tipicità. Salviamo quindi almeno le cose che possano tornare utili allo sviluppo economico.
Gent.mo Silvio condivido le precisazioni che ‘correggono ‘ le improprie (e ingenerose) valutazioni negative sui culurgiones IGP fatte da AM .
Coldiretti dovrebbe comportarsi con modalità più coerenti rispetto ai loro proclami e leali verso i suoi associati e pertanto mi unisco alla sommessa sua richiesta di sensibilizzazione.
Sui premi al cedente – proprietario di terreni agricoli lo vedo difficilmente applicabile stante le norme UE in tema di aiuti.
Concordo in pieno sul nanismo e sul concetto quasi inarrivabile nel pensiero di molti piccoli ( e ispesso nvidiosi) imprenditori sardi nel cercare di fare sistema,
Caro Direttore,
benissimo l’operazione culturale a tutti i livelli e a cominciare dalle scuole d’infanzia dove si formano le future generazioni. Si può benissimo far capire loro e alle loro famiglie le tante ragioni che ci devono spingere anzitutto e dove possiamo a consumare i prodotti della nostra isola.
Benissimo anche e sempre l’operazione culturale nei confronti sempre ed anzitutto dei giovani: nelle scuole va insegnata l’imprenditorialità (la Sig.ra Ducato dovrebbe essere oggetto di studio in tutte le scuole sarde, così come gli altri esempi di imprenditori sardi nei settori sostenibili e strategici per la nostra isola – li conosciamo tutti!) e non ad aspettare alla finestra il posto fisso. Dovrebbe essere inculcata la sfida imprenditoriale, il desiderio di realizzarsi con le proprie capacità.
Quello che lei sintetizza in numeri di squilibrio tra ciò che domandiamo e ciò che offriamo, non è altro che “la pentola bucata” che il Prof. Savona (nostro illustre corregionale) denuncia da troppo tempo, senza che nessuno gli abbia mai realmente dato la giusta attenzione!
Infine, attenzione con gli incentivi….di qualsiasi tipo….da sempre e specie in Sardegna hanno avuto più effetti negativi (inevitabili dietro ogni intervento pubblico!) che positivi. Meglio aggredire la burocrazia e lavorare sulla cultura dei giovani, facendogli fare esperienze all’estero molto prima dell’università e in maniera massiccia!
Ha mai avuto occasione di studiare come l’Irlanda da paese povero e subalterno (che ha conosciuto solo emigrazione e grande fame durante la subalternità) è riuscita grazie alla sua indipendenza a crescere in maniera incredibile in tutti questi anni? E’ mai andato a vedere lì come hanno originato lo sviluppo economico? Si sono posti secondo lei il problema della coltivazione intensiva (lasciamo stare queste cose, la ricchezza della Sardegna è il piccolo, è il diverso, è il particolare e ben curato che cresce in un clima fantastico….vuole mettere i nostri piccoli vigneti con quelli che ci sono a bordo delle autostrade o nelle terre padane monocultura)?
Prendiamo i modelli giusti. Quelli di chi ce l’ha fatta partendo da una situazione simile alla nostra.
Saluti
Parto dalla frase finale finale del suo commento – perfetta – per sposare l’intero suo ragionamento.
Grazie per questo ottimo contributo.
Dacci il nostro pane quotidiano; nel mondo il 70% dei bisogni alimentari sono assicurati dai piccoli contadini, l’ agro industria ne assicura solo il 30% nei paesi industrializzati. L’economia di scala che sottende quest’ultima porta a far diventare rifiuto la metà dei cibi che produce . Impone l’uso di derivati del petrolio ( concime di sintesi , combustibili e pesticidi ) e consumo intensivo del suolo. Si insegue l’aumento della resa per ettaro fino a qualche centinaia di volte e si moltiplicano i consumi per migliaia di volte per poi gettare in discarica la metà di ciò che si produce. Impariamo a coltivare il buon senso
Dae a nois su pane nostru de cada die. In su mundu su 70% de sos bisòngios alimentares los intregant sos massàjos minore. S’agro industria abastat a su 30% ebbia in sos paisos industralitzados. S’ecònomia de iscala chi movet custa ùltima torrat a refudu sa meidade de su mandigu chi produit . Obligat a s’ impreu de sos derivados de su petròliu ( cuntzimes de sìntesi , cumbùstibiles e pestitzidas ) e su a cunsumu intensivu de su terrinu. Si ponet fatu a sa creschida de sa resa pro ètaru finas a chentinaias de bortas e nde resultant cunsumos a mizas de bortas pro nche nde imbolare in discarica sa mediare de su chi si produit . Imparamus a cuntivigìare su bonu sentidu.
Caro Direttore, giusta considerazione: uno dei problemi della Sardegna è l’eccessiva frammentazione della proprietà terriera: Un ostacolo che occorrerebbe superare per consentire investimenti di vario genere. Ma credo che un altro problema, che si aggiunge al primo, sia di tipo politico e culturale, che richiama la storia passata della frammentazione politica, la mancanza di coesione, cioè di essere paris in vista di un risultato comune che abbia radici, rami foglie e frutti validi per tutti sardi. Nel recente passato, tra il 1995 ed i primi dell’anno 2000, bastava la telefonata da cabina di regia con sede a Roma per inventare in via temporanea un gruppo politico, un partitino effimero e passeggero come le nuvole d’autunno. Ma a osservare e riflettere sul fronte interno, quello che si ispira alla teoria politica della sardegna nazione mancata o abortiva, l’immagine che ne viene fuori è lo specchio di una ulteriore frammentazione, che lacera la speranza di una Sardegna protagonista nell’economia-mondo. Ho letto che al teatro Massimo di Cagliari, dove, caro Direttore, hai presentato la tua coraggiosa iniziativa editoriale e culturale, erano presenti vari esponenti di gruppi politici e movimenti che si ispirano al vento del neo-sardismo degli anni Ottanta del secolo scorso. Noto che la frammentazione, e me ne duole, su questo fronte sia una costante e tarda nel trovare una via comune da seguire paris per un risultato comune. Mi auguro, caro Direttore, che il ruolo che intendi esercitare come facilitatore di discussione contribuisca a cancellare nella coscienza dei sardi di oggi quel giudizio sul nostro essere in passato bollati come male unidos, e perciò perdenti. La tua capacità di analisi della condizione economica e politica della realtà sarda è un occasione buona e giusta, che molti dovrebbero condividere, se è presente in loro la consapevolezza del rapporto che vincola nel Mediterraneo la nostra Isola al resto dell’ Europa e del Mondo. Grazie per l’ospitalità e buon lavoro. Vittorio Sella
Ottimo spunto e analisi condivisibili. Spero che qualcuno raccolga la sua sollecitazione a proposito di un dibattito e l’individuazione di soluzioni riguardo all’eccessiva frammentazione dei fondi.
Se non si riesce a aggregare le persone, almeno si lavori per aggregare i prodotti. Quindici anni fa andai all’Ersat a proporre un progetto che prevedeva di legare qualsiasi incentivo all’agrindustria, al sottostare a un unico marchio Sardegna per tutti i prodotti dedicati all’export (fuori Sardegna cioè) con un omogeneo disciplinare di produzione (parmigiano e grana docet). L’Ersat sarebbe dovuto essere il promotore è capofila di un progetto del genere. Mi hanno riso in faccia. Sui mercati extra Sardegna non esistiamo di fatto, a parte qualche eccezione che come tale non è significativa. Ora vivo e lavoro a Varsavia, ho riproposto un progetto simile a una regione polacca per un loro prodotto locale e dopo 10 giorni mi hanno fatto incontrare il Ministro dell’Agricoltura per presentarlo. Questa è la differenza tra la Sardegna è il resto del mondo. Non serve essere dei geni per trovare le soluzioni, basta copiare con un minimo di intelligenza e di etica.
Buon proseguimento per questo spazio importante di riflessione e confronto.
Piero Cannas
Presidente della Camera di Commercio e dell’Industria Italiana in Polonia