La migliore politica industriale è una politica economica capace di creare un habitat legale e operativo dove agisce una corretta competizione di mercato e dove l’iniziativa privata non sia sottoposta a pesanti e inutili vincoli burocratici, la tassazione non sia opprimente e l’intervento pubblico sia volto a creare economie esterne, soprattutto attraverso investimenti infrastrutturali materiali e immateriali, invece di erogare assistenza che crea dipendenza delle imprese dallo Stato.
Sono condizioni valide per tutti i paesi, ma per l’Italia esse svolgono un ruolo anche più importante per due principali ragioni: perché il suo modello di sviluppo ha due propulsori – l’industria esportatrice e le costruzioni – il secondo dei quali sovente trascurato, se non proprio ostacolato; e perché i settori non esposti alla concorrenza sono in larga maggioranza e causano un funzionamento perverso del mercato e un’iniqua distribuzione del reddito.
Sulla fondatezza del giudizio severo dato sullo stato in cui versano le opere pubbliche e l’edilizia privata bastano le statistiche nazionali e i confronti con l’estero; il funzionamento perverso del mercato è invece testimoniato dalla prevalenza dei settori non esposti alla concorrenza capaci di trasferire sui prezzi sia gli aumenti salariali, neutralizzandoli come potere di acquisto, sia gli oneri fiscali, consentendo maggiore profitti rispetto ai settori esposti e così creando difficoltà per l’industria esportatrice e per la società nel suo complesso.
Da noi prevale un sistema dove la rendita è ben accetta e prevale sul profitto.
Questa situazione non esclude che si possa discutere di politica industriale e definire un programma adeguato a condizione che essa sia inquadrata in un programma di politica economica volto a rimuovere gli ostacoli allo sviluppo brevemente ricordati. Se manca questo inquadramento – e oggi manca – i provvedimenti di politica industriale non imprimono al sistema produttivo un impulso capace di autopropagarsi in via permanente; la spinta si impantana nelle condizioni di ambiente economico e sociale prevalenti creando dipendenza dal ripetersi dei provvedimenti e, quindi, illusioni sociali e oneri fiscali crescenti per la collettività.
La politica può avere obiettivi settoriali, ma non limitati ai settori industriali, e vanno guidati da una visione d’insieme dell’economia. La proposta del Ministro Calenda ha questi contenuti, ma non basta investire e produrre beni industriali, se manca un settore commerciale efficiente ed efficace, una buona logistica, un mercato dei capitali e una organizzazione del lavoro adeguati, una burocrazia business friendly, per citare solo alcuni indispensabili fattori di contorno.
In Italia manca una chiarezza di diagnosi dovuta non solo alle radici nella cultura politica italiana, ma anche dell’approccio europeo al problema. Appendere a questa carenza di visione una politica industriale corrisponde a quella che la letteratura economica chiama bootstrap theory, una teoria dell‘azione appesa alle stringhe delle scarpe.
Finché prevale il convincimento che un mercato competitivo danneggia il benessere sociale e, quindi, è lo Stato che deve provvedere a sostituirsi nella spinta allo sviluppo, non si va da nessuna parte o, meglio, si resta nell’ambito di quel quinto di economia che ha fatto la scelta del mercato competitivo e vinto, con il resto dell’economia che continua a operare come sempre e chiede assistenza, ottenendola.
Sorprende che i sindacati dei lavoratori siano portatori di una filosofia antimercato, nonostante che l’intervento pubblico nell’economia abbia determinato un raddoppio del peso dello Stato (nelle spese e nelle tasse) senza raggiungere lo scopo di migliorare la crescita reale, l’occupazione e la distribuzione del reddito e della ricchezza. Ha inoltre lasciato un’eredità pesante dal lato del debito pubblico che pesa come un macigno sul nostro sviluppo in presenza di regole europee che consentono il formarsi di un eccesso di risparmio inutilizzato oggi pari al 2,7% di PIL, come testimonia il surplus della nostra bilancia estera, e ne proibiscono il riciclo attraverso il deficit pubblico, togliendo alla nostra politica economica la capacità di rilanciare la domanda aggregata nella dimensione necessaria e nelle forme opportune e non ripetitive.
La conclusione è quindi quella della premessa: la migliore politica industriale è una politica economica capace di creare un habitat legale e operativo che avvantaggi l’intero sistema produttivo.
Secondo me c’è anche una terza ragione, più importante (in termini relativi di confronto con gli altri Paesi Europei) delle due (anch’esse valide ovviamente) che cita il Professor Savona: il sistema economico italiano vero e quello Sardo in particolare, ossia quello che crea vera ricchezza e non dipende dal pubblico da cui subisce solo costi (tasse, contributi e burocrazia) e interferenze negative (nelle tantissime forme derivanti dall’intervento dello stato nell’economia) è prevalentemente basato sulle piccole imprese o le micro-imprese! Quelle diffuse che sfuggono al controllo/giogo dei politici e dei sindacati, che creano il vero valore e che cambiano continuamente per cercare di sopravvivere e cogliere ogni opportunità.
E’ a loro che bisogna pensare liberandole il più possibile dalla burocrazia e dalla tassazione, per creare così nuove imprese e con esse nuovo lavoro, di quello vero e diffuso (quello che non potrà mai essere oggetto di alcun ricatto!).
Ma da uno come Calenda, un altro bravo italiano in quanto “figlio di” (manifestatosi già dai tempi del tenero Garrone) cosa ci si può aspettare?
Vale, le tue parole le condivido, la Sardegna si basa sulle piccole imprese e micro imprese, che hanno creato moltissimi posti di lavoro. Oggi queste eroiche realtà sono in una crisi profonda, stanno morendo lentamente, straziate dalle tasse e da equitalia, e da una politica Regionale, incurante della disperazione dei commercianti, sta autorizzando ancora l’apertura alla Grande Distribuzione, annullando la legge Regionale del Piano Commerciale. Vedo poi poca attenzione anche da parte dei tanti movimenti Sardi su questo comparto che comprende circa 70 mila addetti. Sembra che non interessi. Aggiungo una parola, oggi molto contestata e da qualcuno derisa, ben venga urgentemente la Zona Franca, e che i tanti movimenti contrari ne vedano finalmente il lato positivo, e lo inseriscano nei loro programmi elettorali.
Caro Bruno, grazie. Comprendo molto bene quello che scrivi. Il vero tema che poni (asfissia delle piccole e micro imprese per oneri fiscali, oneri INPS, oneri burocratici, aggi di Equitalia e ulteriori aggravi su energia, servizi bancari, trasporti e via dicendo derivanti da monopoli) è putroppo davvero lontano dai politici di professione, dai burocrati e purtroppo da molte persone con lo stipendio (oggi sicuro, ma chissà domani) o addirittura senza lavoro e stipendio.
La grande distribuzione segue esattamente le logiche preferite da sempre da politici, burocrati e naturalmente prenditori e sindacati: in cambio dell’assunzione degli amici (che portano voti o altra utilità) il prenditore potrà avere il permesso, la concessione, la deroga, e via dicendo.
Lei invece Bruno, che immagino un piccolo o micro imprenditore, quanti voti può garantire al polticotto della sua zona?
Eppure basterebbe un pò di buon senso per capire che il vero valore o ricchezza sono quelli che sono creati diffusamente da tanti piccoli imprenditori o professionisti e non quello concentrato in poche industrie, enti o altri stipendifici creati o favoriti per foraggiare i voti ai politici.
Si comprende alla luce di ciò perché lei che ha una idea per fare qualche soldo autonomamente (creando vero valore che si aggiunge a quello degli altri), è costretta ad aprire la partita IVA, a richiedere almeno una (se le va bene) autorizzazione allo sportello comunale pagando più di un professionista per comprendere i requisiti, iscriversi ad un fondo INPS e versare i contributi minimi in acconto e saldo, versare le imposte in acconto e saldo secondo un calendario asfissiante dovendo pagare un commercialista per venire a capo. E se deve assumere una persona? Ha presente cosa è obbligata a fare e pagare per poter assumere una persona e per dargli del lavoro?
Riguardo alla tanto discussa zona franca, personalmente punterei ben più in alto: il recupero o se vuole la conquista di un’autonoma politica fiscale come unica leva per creare le condizioni di sviluppo vero e sostenibile.
Siamo meno del 3% degli elettori: secondo lei i nostri interessi hanno una speranza di essere presi in considerazione da un governo italiano?
Saluti
La libertà intellettuale del professor Paolo Savona ci d’evessere di stimolo, perché da quando ha iniziato a porre dubbi sulle politiche economiche e ancor monetario si è allineato tra gli eretici, di conseguenza il gota del politicamente corretto lo hanno escluso dal dibattito pubblico.
La sua premessa chiarisce la sua posizione: il libero mercato non può NON avere regole certe, NON può e non deve eliminare la concorrenza e l’iniziativa privata non può essere gravata da una burocrazia soffocante e spesso inutile.
Savona vuole che si inverta il flusso del denaro che lo Stato inietta in vena alle aziende assistite, come fosse una droga, ma convogli le risorse in infrastrutture strategiche e di utilità.
Questo è un paese dove non esiste il VERO libero mercato, tutto è controllato da aziende privilegiate che ottengono concessioni e monopoli dallo Stato senza che vengano erogati servizi all’altezza o dal prezzo competitivo.
Sarebbe sufficiente ricordare le Autostrade, la Tirrenia, Alitalia e tutte quelle aziende che forniscono beni e servizi in esclusiva allo Stato per scoprire che gran parte del debito corrente va in quella direzione.
Mi dispiace i commentatori non abbiano fatto menzione dei settori strategici citati dal prof Savona, comele COSTRUZIONI e le esportazioni, forse perché sono temi, specie il primo, che non si vuole trattare per non irritare i tanti ambientalisti e progressisti, che vedono nel mattone un inquinante e un vantaggio per i cosidetti PADRONI, quindi il sentimento di invidia impedisce di parlarne, meglio bloccare tutto e mandare a casa la gente (40 mila in 10 anni) tanto chi ha una fede manichea per l’ambiente preferisce l’asprezza della natura, meglio ancora se priva di uomini.
La Sardegna è un’isola in cui la grande industria non ha attecchito, non solo per i problemi logisti, ma di carattere culturale e politico, alla fine hanno facilitato la decisione degli industriali ASSISTITI di chiudere tutto, per la chiusura del flusso di denaro pubblico, specie perché l’ENI aveva deciso di abbandonare la chimica.
E’ vero, la Sardegna è un insieme di piccole e medie aziende, il loro problema non è la mancanza di una zona franca (esce fuori ogni volta come la promessa di moltiplicare i pani e i pesci), ma di CREDITO, infatti, tutti dimenticano che da quando è arrivata la crisi, nel giro di 10 anni, hanno chiuso 20.000 aziende sarde, a cui è stato chiuso un credito complessivo di circa 2 miliardi di euro (sofferenze), è facile comprendere come questa somma si faccia sentire nella nostra economia, con l’indebitamento personale presso le finanziarie, il più alto in precentuale.
Se son si conclude una pace fiscale con i sardi, si crea una banca locale capace di erogare crediti al di fuori delle norme di Basilea, si tolgano molti dei vincoli imposti sul territorio, si eliminino tutte le normative astringenti e insostenibili per le piccole aziende, e si mettano in concorrenza le aziende fornitrici di prodotti e servizi dell’apparato pubblico, solo allora i sardi torneranno a sognare, forse…
Voglio chiarire il passaggio sulla concorrenza, perché in troppi pensano che l’appalto e il prezzo più basso siano la cosa più giusta, tralasciando che questo è ciò che vogliono le aziende che non amano la concorrenza, perché poi l’appalto può essere cambiato in corsa e di conseguenza il suo prezzo.
L’esempio migliore per comprendere ciò che voglio dire è la continuità territoriale, dove lo Stato o la Regione sa cosa deve pagare, ma non ha alcuna garanzia che questo monopolio possa essere utile per i sardi, che invece DEVONO poter scegliere e decidere DOVE e quindi a CHI destinare i soldi pubblici.
Ci sarebbe da parlare per giorni, ma nella proposta per l’autodeterminazione non vedo un progetto economico, non è che dobbiamo anadare a CHI l’HA VISTO?
PS
Il video spot per le prossime politiche, inneggiante l’autodeterminazione, è a dir poco discutibile se non di cattivo gusto, buono solo per soddisfare la rabbia e l’invidia di alcuni inascoltati sacerdoti della purezza.
Con quel video, i sardi normali voteranno altrove, anzi, si terranno ancor più alla larga da chi manifesta tanto disprezzo.
Ma a chi gli è venuta in menta quella cosa?
Mi ricorda tanto la risposta di Fantozzi alla vista del film sulla Corazzata Potemkim (…).