Tra gli appuntamenti culturali estivi all’interno delle programmazioni dei vari festival, ieri c’è stato quello che aveva come protagonista uno dei più importanti scrittori viventi: Irvine Welsh. Autore di romanzi cult come “Trainspotting”, “Ecstasy”, “Il Lercio”, “Acid House” e tantissimi altri, lo scrittore è stato invitato nell’ambito della decima edizione del festival “Sulla terra leggeri”.
Attraverso i suoi scritti era facile intuire che Welsh non fosse certo l’evoluzione dello studente modello, e che un modo così particolare e penetrante di scrivere fosse il frutto di una mente al di sopra delle convenzioni, e della prassi in genere. Aprire un romanzo di Welsh è come entrare in un’orbita lessicale che, attraverso la parola, conduce in un mondo difficile da classificare nel quale si viene trascinati, arduo spiegarlo con le semplici parole che normalmente utilizziamo.
È l’annullamento di ogni regola, di ogni perfezione dello scritto, a favore di una illuminante esperienza difficile da dimenticare. Ecco, dietro questo genio dell’arte letteraria c’è un uomo che ha vissuto esperienze non comuni e, di norma, mal viste.
Oggi Welsh ha 59 anni e, oltre ad essere uno scrittore, è un uomo con un forte impegno politico, contestatore dell’economia neoliberista e del consumismo, da sempre apertamente schierato per l’indipendenza della terra in cui è nato, quella Scozia che viene raccontata nei suoi libri, quella nazione che racconta partendo dalla sua città, presente in diversi suoi romanzi, Leith.
La Scozia è dentro ad ogni pagina, si potrebbe osare affermare, i suoi personaggi ironizzano contro gli inglesi, la netta divisione che Welsh tiene a dare è chiara: una cosa è la Scozia, un’altra è l’Inghilterra. Navigando in rete mi imbatto in un articolo che parla di Welsh come di uno scrittore “inglese” e penso a come spesso si ignori chi c’è dietro un nome e un titolo.
Da sarda purtroppo non mi stupisce che, su determinate visioni politiche, spesso scenda una sorta di velo oscuro, non distinguere la nazione scozzese da quella inglese è un po’ la stessa cosa che accade agli scrittori sardi che automaticamente diventano italiani perché utilizzano la lingua italiana, di conseguenza Welsh è uno scrittore “inglese”, punto; del resto scrive in inglese.
Ieri, durante l’intervista sul palco del festival, osservavo il volto di Welsh con attenzione, ho ascoltato con attenzione le domande che gli sono state poste, che sarebbero potute essere di ben altro rilievo. Chiedere a uno scrittore di tale calibro: “È vero che hai scritto alcuni tuoi libri in metropolitana?” o “Qual è la domanda alla quale ti sei stancato di rispondere su Trainspotting?” “Hai scelto tu la colonna sonora del film?” sinceramente mi ha fatto un po’ tristezza. Un uomo con un passato non idilliaco, figlio di una cameriera, che ha lavorato anche come spazzino prima di ottenere il successo, un uomo impegnato in politica, con un’intelligenza accesa… al quale sono state rivolte domande da salotto tv, di quello più banale e scontato, un vero peccato.
Ho sentito comunque alcune cose interessanti durante il corso dell’intervista, ad esempio quando Welsh ha detto “Sento spesso dire che per poter scrivere si ha bisogno di una situazione ideale, sono tutte cazzate, si può scrivere ovunque”.
E pensare che in rete non è difficile imbattersi in interviste a Welsh dove il tenore delle domande è ben diverso, ad esempio nell’articolo di Elisabetta Pagani realizzata per La Stampa il 17/09/2016, (qui il link):
“Si può vivere senza dipendenze?”
“Qual è, oggi, la sua dipendenza?”
“La Scozia potrebbe permettersi l’indipendenza sotto il profilo economico?” Alla quale Welsh risponde così: «Che domanda è? Perché non dovrebbe permettersela visto che ha più risorse naturali dell’Islanda, che sembra cavarsela bene? La Scozia ha l’8,5% della popolazione del Regno Unito e qualcosa come il 40% delle sue risorse naturali. Penso che con l’indipendenza diventerebbe un Paese molto ricco».
Servirebbe davvero conoscere almeno la storia di un autore così importante, prima di invitarlo e riservare a lui un’intervistuccia da talk show. Davvero un’occasione persa, speriamo almeno che Welsh si porti dei bei ricordi dei nostri paesaggi e della nostra cucina.
Scrivere in italiano fa di noi scrittori italiani, scrivere in inglese fa di noi scrittori inglesi. L’essere engagé non ha niente a che vedere con questo dato di fatto. Del resto si è discusso recentemente di questo in occasione del festival di Gavoi che pullula di scrittori che si autodefiniscono “sardi” solo perchè si chiamano Puddu o Zanda o perchè sono nati nell’isola. Poi nessuno nega che io passa scrivere in italiano della Sardegna e raccontarla in maniera anche accattivante o realistica, ma per il semplice fatto di raccontarla in italiano, sono uno scrittore italiano. E a quanto pare non è solo una mia opinione. Non capisco poi cosa ci sia di fastidioso visto che noi sardi siamo, lo ricordo, italiani. Essere sardi è una condizione. Io sono sarda, se tu isolano non puoi capirimi davvero in ogni mia manifestazione, allora non apparteniamo alla stessa nazione.