Il recente intervento di Alberto Filippini sulle pagine di questo blog, a prescindere dal contenuto, che in ogni caso è opportuno commentare, è utile perché sollecita un dibattito sul tema che tanti timori suscita nelle persone.

Timori, a mio parere, troppo spesso dovuti ad un’informazione parziale, che tende a semplificare un fenomeno complesso e le cui componenti in massima parte si sottraggono ad un’analisi frettolosa e dettata da pregiudizi e prese di posizione preconcette.

A tali inconvenienti, sempre a mio modo di vedere, non è riuscito a sottrarsi neppure il comunque encomiabile Filippini.

La materia è complessa. Esige rigore e piena libertà intellettuale. Non può essere approcciata avendo un solo angolo di visuale (la norma giuridica) ed un orizzonte predeterminato.

Non si può condurre il discorso prendendolo per mano e, fra omissis ed imprecisioni, fargli percorrere le strade previamente tracciate per giungere infine ad un facile approdo: <<… ho il timore che la decisione di incrementare il flusso incontrollato di stranieri in Europa abbia una matrice esclusivamente economica, del tutto estranea ai tanto sbandierati principi di solidarietà umana>.

Si crea così un indebito trait d’union fra il suo excursus narrativo e l’attuale montante polemica condotta lancia in resta, e poco cervello, da movimenti populisti e demagogici sorretti da inopportune esternazioni di qualche poco avveduto magistrato.

Tutto davvero troppo facile.

Non si deve aver timore di dire o scrivere quel che i dati (reali e confrontabili), il sentimento e la ragione suggeriscono… Costi quel che costi. Su questa materia, che coinvolge non l’intelletto, neppure la giurisprudenza, men che meno la pancia della gente, bensì uomini, donne e bambini che sperano e sognano, non ci si può far soggiogare dal politicamente conveniente, neppure dalle pretese dell’ego, che rifugge dall’irritante canea infoiata di pavidi uomini preferendo prender quartiere fra le calde braccia del consenso, seppure disinformato e preconcetto.

Quando si affrontano tematiche che coinvolgono, anzi travolgono esseri umani non si può cedere all’indifferenza, è necessario saper essere partigiani, prender parte (Gramsci, assai citato in questi giorni, docet). Non può essere il facile consenso il motore immobile del ragionare. È, invece, adeguato alla gravità ed all’urgenza del tema proporsi di delimitare i confini.

Non si può aver timore di tracciare un solco fra i finti ed insensati propugnatori della necessità di preservare un’inesistente purezza etica e chi, invece, guarda il mondo delle relazioni umane avendo come unico concetto l’eguaglianza genetica fra umani. Condizione questa che dovrebbe suggerire a chiunque che si piange o ride, soffre o gioisce in ogni parte del mondo per le stesse ragioni, per gli stessi accidenti della vita, e che l’essere un migrante è proprio uno dei più dolorosi accidenti che la vita può riservare…

Oggi a loro, domani potrebbe riservarlo a me o ai puristi etnici.

Prima di addentrarmi nel discorso, mi preme chiarire che non mi sogno di mettere in dubbio il fatto che esistano al mondo persone spregevoli. Quindi non sarò io ad affermare che la questione dei profittatori del patire altrui sia una montatura o che si tratti di frottole. Anzi, sono ben propenso a credere che su quelle bagnarole si imbarchino pure farabutti senza scrupoli che sfruttano economicamente la disperazione di tante persone.

Il punto sta qui. A fronte di quattro o cento bastardi che si acquartierano sulle spalle della povera gente, contro i quali auspico la massima severità della giustizia, esistono, sempre imbarcate su quelle medesime bagnarole, mille esistenze, e più, che non sono artefici di tali ignominie, ma di queste sono vittime.

Credo che ciascuno di noi abbia da fare i conti con se stesso. La magistratura deve fare i conti con la propria missione professionale. Deve, quindi, indagare, accertare e punire (compito che non spetta a me, che posso solo indignarmi ed incazzarmi). La politica dovrà svolgere al meglio il suo di compito. Io ne avverto un altro. Di ben diversa natura, intimo, non professionale, ancor meno politico.

Io guardo la disperazione di questa gente. Guardandola, mi rendo conto che sono vittime più volte. Una prima volta della condizione ambientale oggettiva che li spinge ad affrontare una morte possibile e probabile, intraprendendo un viaggio lungo e pericolosissimo – tanto che noi neppure riusciamo ad immaginare -, invece di attenderne una certa stando a casa propria.

Vittime di queste quattro o quattrocento carogne che sfruttano la disperazione altrui e fanno perno sulla speranza. Poi vittime del mare. Perché anche se non muoiono fra le onde, il mare li consegna alla terra di approdo spossati e distrutti nell’animo (parlate con loro). Poi, infine (che non è mai una fine, più spesso un inizio) vittime dei pregiudizi, delle paure, del disprezzo che incrociano lungo le nostre strade, fra le vie delle nostre città.

Poco posso fare per evitare la prima condizione che genera sofferenza, se non auspicare che la comunità internazionale intervenga con urgenza per sanare le ferite che affliggono le loro terre d’origine e, magari, in più di un caso, faccia smettere i bombardamenti sulle loro case. Poco posso fare per alleviare la seconda condizione che li rende vittime, se non incazzarmi e sperare che la giustizia faccia in fretta il proprio dovere.

Però, quel tanto, che è sempre troppo poco, che posso fare per attenuare o impedire o evitare che si creino le condizioni per l’ultima situazione che li rende vittime disprezzate, lo faccio con piena ed assoluta convinzione, senza ma e rinunciando ai se.
Faccio quel che posso, come e quando posso. Senza nascondermi dietro l’inerzia altrui. Lo faccio non per un Dio in cui non credo, neppure per uno spirito di appartenenza ad un’ideologia vetero comunista, o per buonismo o per altri cazzi di cui sono sempre accusato.

Lo faccio esclusivamente perché non riesco a comportarmi diversamente, perché se non lo facessi avrei la percezione netta di aver perso per strada, inseguendo i ma e i se o celandomi dietro le inerzie altrui, quel poco di umano che un’era di modernismo e di pieno egoismo individuale sta uccidendo.

Non per essere migliore degli altri, ma solo perché il mio sentirmi inutile mi spinge a sfruttare ogni occasione per attenuare quella sensazione di impotenza ed inutilità che mi pervade ogni volta che vedo le bestie accanirsi contro chi ha meno forze e possibilità di difesa.

Detto ciò, immagino quanto fastidio potrebbero indurre le mie parole. Non me ne curo: “[avendo] previsto tutto questo, dati causa e pretesto, [son certo] farei lo stesso, a culo tutto il resto” (cit.).
L’intervento che segue sarà lungo, risulterà pedante (la pedanteria dei numeri), poco incline al facile applauso, doverosamente sincero e caustico.
Prima di tutto facciamo chiarezza sulla terminologia.

Rifugiato
Il rifugiato è una precisa categoria giuridica, e si riferisce a una persona a cui è stato riconosciuto, appunto, lo status di rifugiato. Si è cioè accertato, tramite un’apposita procedura, che la persona è stata costretta a lasciare il proprio paese a causa di persecuzioni per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, e che per questo non può tornare nel proprio paese. Questa definizione deriva dall’articolo 1 della Convenzione di Ginevra del 1951, a cui fanno riferimento le diverse disposizioni nazionali che hanno riconosciuto la convenzione.

Richiedente asilo
Il richiedente asilo è colui che ha presentato domanda per ottenere l’asilo politico, e dunque lo status di rifugiato, in un paese estero. Si tratta, anche qui, di una categoria definita giuridicamente e temporalmente. Infatti il richiedente asilo diventa altro (rifugiato, o migrante economico, o migrante irregolare) nel momento in cui ottiene una risposta definitiva alla sua domanda di asilo.

Profugo
Si tratta di un termine generico che indica chi lascia il proprio paese a causa di guerre, persecuzioni, o catastrofi naturali. È dunque la parola più adatta per definire esodi di massa come quello siriano, anche se implica una condizione di passività che spesso non coglie la dimensione attiva e strategica che molte persone che migrano mettono in realtà in campo.
(Le definizioni dal web à http://www.lenius.it/parole-migrazioni/ un sito fra i tanti)

La corretta definizione dei diversi status giuridico, sociale e di fatto è utile per capire quanto propostoci dal pur apprezzabile Filippini sia parziale e, per certi versi, fuorviante.

Perché, per esempio, un giurista circoscrive lo status di ‘rifugiato’ a quello politico (testualmente ‘rifugiato politico’)? Quasi si volesse limitare il riconoscimento dello status di rifugiato ai soli perseguitati per ragioni politiche, e, conseguentemente, così anche gli obblighi di assistenza della comunità internazionale. Quando, invece, la Convenzione di Ginevra del 1951 estende il concetto anche ad altre più ampie condizioni di persecuzione, riferendosi, infatti, il testo, ai ‘rifugiati’ tout court, senza alcuna aggettivazione ulteriore. Quindi perseguitati “per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, e che per questo non può tornare nel proprio paese.”. Gli apolidi, che fine hanno fatto nel suo ragionamento?

Necessità di sintesi? Senza dubbio! Ma così si crea solo tanta confusione.

Perché, mi domando ancora una volta, aver voluto enucleare solo due tipologie di cause di migrazione, contrapponendole per giunta? Testualmente: ‘rifugiato politico’ e ‘migrante economico’ (aggettivo terribile). Quando, invece il diritto internazionale e la prassi umanitaria individuano ed ammettono ben altre ragioni ed urgenze che spingono un essere umano ad abbandonare il proprio Paese.

Anche in questo caso è sempre la sintesi l’ispiratrice della sua narrazione? Forse, invece, il perché potrebbe essere spiegato e meglio compreso con la volontà di condurre il discorso lungo percorsi preordinati e preconcetti. Può essere. Non so. Faccio salva la buona fede.

Perché eludere l’evidente condizione di ogni rifugiato, che prima di essere riconosciuto tale, è anch’esso un migrante? Chi sbarca sulle nostre coste tale è… Sempre! Gli vien riconosciuto lo status di ‘rifugiato’ solo in seguito, dopo non sempre agevoli accertamenti che richiedono tempo ed impegno.

Lo status di ‘rifugiato’ è l’unico giuridicamente riconosciuto da una vetusta ed ormai obsoleta legislazione internazionale del 1951 (quando le problematiche erano diverse e non così soverchianti e diversificate). Impone precisi obblighi a carico dei paesi ospitanti (innocenza dei rifugiati che s’introducono illegalmente; garantisce il diritto di non respingimento… Con buona pace di Salvini e di Grillo). Ma per essere riconosciuto tale è indispensabile ottenere questo particolare status.

Quindi non sono, per esempio, possibili i respingimenti in mare, poiché non è dato sapere in quella fase chi ha diritto e chi no.

Perché un giurista omette di rendere edotti i suoi lettori di questa particolarità? Sintesi?

Le motivazioni che possono spingere un individuo ad abbandonare il proprio paese d’origine riconosciute oggi dalla comunità internazionale sono ben più delle due evidenziate da Filippini.

Poco rileva che la norma che le tutela e regolamenta sia più o meno cogente. Quel che è rilevante è che si tratta in tutti casi di situazioni di urgente necessità, che pongono a rischio la sopravvivenza dell’individuo e che richiedono uno sforzo umanitario.

Perché non si parla dei ‘profughi’, cioè di coloro che abbandonano il proprio paese d’origine a causa di guerre, persecuzioni, o catastrofi naturali? Qui non entra in gioco la condizione di persecuzione individuale, bensì una condizione oggettivabile e collettiva, ben desumibile accertando il luogo di provenienza. Così si scopre, per esempio, che un nigeriano, pur non essendo individualmente perseguitato, fugge da un teatro di guerra. Oppure un eritreo, un siriano, un iracheno, un afgano, un palestinese (no, questi ultimi no, son reietti).

Il profugo non avrebbe da accampare diritti giuridicamente statuiti dalla comunità internazionale, essendo l’unico status giuridico riconosciuto quello di rifugiato. Eppure, di fronte ad un profugo di guerra o per carestie naturali (spesso indotte da sfruttamento selvaggio), non credo che la nostra coscienza possa ritenersi monda da ogni peccato attingendo esclusivamente alla norma giuridica, avendo soprattutto previa consapevolezza che il teatro di guerra è in larga misura responsabilità delle bombe occidentali, magari proprio quelle di ‘sa domo nostra’.

Esistono anche i ‘beneficiari di protezione umanitaria’. Ovverosia individui che, pur non essendo riconosciuti ‘rifugiati’, perché non sono vittime di persecuzione individuale nel loro Paese, hanno comunque bisogno di protezione o assistenza: si tratta di persone che se fossero rimpatriate potrebbero subire violenza o persecuzioni. Ma di chi si tratta? Pensate agli omosessuali, od anche semplicemente alle donne di certa parte di arabia… Per citare due esempi possibili.

La legislazione, come accennavo sopra, è antiquata, non più adatta ad affrontare in scienza e coscienza il gravoso problema. Per questa ragione l’attribuzione dello status di ‘rifugiato’ rappresenta uno ‘zerovirgola’ del totale, come giustamente fa notare l’autorevole Filippini. Peccato che abbia voluto guardare solo un ridotto spicchio dell’intero.
La legislazione necessita di urgenti aggiornamenti. È anacronistica e non riflette più la realtà del problema. Compito improbo. Gli Usa non hanno mai sottoscritto l’accordo di Ginevra, evitando così di farsi carico dei correlati obblighi. Si sono limitati a sottoscrivere i soli Protocolli del 1962 (o 1967), non vincolanti.

A questo punto del lungo intervento, mi preme sfatare alcuni miti.

Il costo previsto per l’accoglienza in Italia per il 2017 supera i 4,5 mld di euro. Grancassa, berci e furore! Non possiamo permettercelo. Il solo Inps, senza considerare gli introiti erariali, incamera annualmente dal ‘mondo immigrazione’ oltre 5,8 mld di contribuzioni previdenziali (fonte INPS, anno 2016… stizzitevi pure).

Onestà intellettuale vuole che si ammetta, ed io lo faccio, che mentre le spese a budget sono riconducibili alle recenti immigrazioni di massa – quindi sbarchi, ma non solo, e compagnia cantante -, le contribuzioni Inps sono da ascrivere principalmente a quelle pregresse. Di individui e gruppi di persone ormai stabilitisi in modo più o meno organico ed armonioso nel nostro territorio.

Cioè individui che svolgono un’attività lavorativa remunerata. Si tratta comunque del solo dato Inps, quello erariale è notevolmente superiore.
In poche parole, il complesso problema economico connesso all’immigrazione è totalmente coperto dall’immigrazione stessa, con notevoli avanzi. Per comprenderci meglio, se sul territorio nazionale non ci fosse un solo immigrato, l’Italia sarebbe certamente più povera.

Urlate ed inveite pure. Questi sono dati ufficiali facilmente ricavabili attingendo informazioni reali e non bufale dai siti istituzionali.

Altro mito da sfatare. Quasi mi vergogno. Alloggiati in hotel di lusso, percependo ben 35€ (45 per i minori) al giorno (1.050 € mensili), per non fare nulla, mentre le pensioni degli italiani a mala pena arrivano ai 700€ medi mensili.

Idiozie degne di Salvini e del ‘reddito di cittadinanza’. Agli immigrati, in attesa che sia definito il loro status (mesi e mesi, se non anni), ospitati negli ex Cie, ora Cpr (centri permanenza e rimpatrio, legge Minniti-Orlando), è attribuito esclusivamente il ‘pocket money’, pari ad €2,5 giornaliere. Finalità? necessità personali. Quali? Essenzialmente mantenere i contatti con la propria famiglia di provenienza, oltremare.

Il resto, 32,50€ giornaliere, è per l’accoglienza (vitto e alloggio, quando ci sono). In questi 32,50€ pro capite giornaliere si annida il Buzzi di turno. Addebitiamo anche il nostro saper essere spregevoli e senza scrupoli agli immigrati?

Accade che, sovente, la necessità aguzzi l’ingegno, per cui non è raro incrociare questi sporchi ‘negri’ bighellonare sfaccendati con cellulari ultima generazione (che idiozia) per le nostre piazze. Risposta semplice: sfruttano il free wifi e tesaurizzano il ‘pocket money’ per mangiare, non certo per finanziarsi gite di piacere. Conoscere è sempre meglio di ignorare.

Con ciò non mi sogno di credere che fra questa marea bruna non si annidino delinquenti, spacciatori, stupratori. Ma qualcuno mi sussurrò una volta che la responsabilità per i reati che si compiono sia sempre personale, non collettiva (fattevelo confermare da un giurista). Siano dunque individuati i criminali spacciatori, stupratori, ladri ed assassini e la giustizia segua il suo corso.
Siamo invasi da una marea bruna proveniente dall’Africa, che sbarca sulle nostre coste e ci ruba lavoro, tranquillità, obesità ed ozio.

Lasciamo che parlino i numeri.
In Italia sono presenti circa 5mln di stranieri, 8,3% della popolazione residente (registrati, regolari… Poi non è proprio così, gli uffici anagrafe dei comuni, le Questure e il Ministero degli interni, troppo spesso non hanno notizia dei rimpatri volontari e quindi non procedono alle relative cancellazioni). Il numero degli irregolari, poiché son tali, non è noto, solo stimato.

Di questi 5mln, 1,5 sono comunitari, 3,5 extracomunitari. Al 1-1-2016, questi ultimi risultano in calo rispetto alla stessa data di rilevazione dell’anno precedente, di circa 13.000 unità, mentre crescono gli immigrati comunitari (soprattutto romeni). Le prime dieci comunità sono: Romania 23%; Albania 9,3%; Marocco 8,7%; Cina 5,4%; Ucraina 4,6%; Filippine 3,3%; India 3,0%; Moldova 2,8%; Bangladesh 2,4%; Egitto 2,2%.

Evidente che l’aggressione non arriva dal mare. Fattevene una ragione. Rumeni, albanesi, cinesi, ucraini, indiani, moldavi e filippini – almeno il 60% del totale – non si imbarcano in Libia, Tunisia ed Algeria per approdare in terra italica. Non abbiate timore, i mori non stupreranno le nostre donne.
Un esercito di uomini famelici insidia i nostri territori di caccia. Le donne rappresentano il 52,6% del totale. Siate sereni, forse anche i paciosi ebeti salviniani troveranno qualcuna che li coccoli.
Ma vengono tutti in Italia. Falso! Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna accolgono in termini assoluti più immigrati extracomunitari di quanto faccia l’Italia; in termini percentuali rispetto alla popolazione ‘autoctona’ (sic!), Austria, Irlanda, Belgio, Germania, Spagna, Gran Bretagna fanno assai di più dell’Italia.

La Sardegna, la nostra meravigliosa isola, non regge l’invasione. Dopo la Sicilia siamo i più esposti. Falso, assurdamente falso pure questo. Conteggiando anche la Repubblica di San Marino e la Città del Vaticano, in termini percentuali rispetto alla popolazione ‘autoctona’ ci posizioniamo al 21 posto (ribadisco, ventunesimo posto) su 22 regioni/aree. Al primo posto la Repubblica di San Marino (14,3%), all’ultimo posto la Città del Vaticano (0,00%). La Sardegna, con il 2,9%, offre ospitalità a meno di 50.000 immigrati extracomunitari. Con buona pace per l’idiozia della sostituzione etnica.

I dati sono aggiornati al 1-1-2016, fonte Istat.
Amen.

Con ciò non voglio dire che tutto sia roseo e meraviglioso, ma per favore, smettiamo di farci prendere dall’isteria e dall’ansia. Impediamo che una tragedia umanitaria sia strumentalizzate per finalità elettorali. Rifiutiamoci di prestarci come strumenti imbelli nelle mani di luride persone.
Filippini chiede a quale livello debba essere interrotta l’accoglienza. Ritengo sia anch’essa una domanda retorica ed insensata, poiché non è dato sapere quando le condizioni oggettive che spingono alla fuga avranno termine. Retorico il suo quesito, altrettanto retorico il mio: quale è il limite in termini di tonnellate di esplosivo e liquami inquinanti che l’Occidente si è riproposto di esportare in Africa, Medio Oriente, Asia?