Di solito quando si parla di fenomeni migratori ci si sofferma sulla vicenda personale del migrante o sull’impatto del suo passaggio sulla società di transito o su quella in cui esso decide di stabilirsi. Molto raramente invece ci si pone il problema di quali possano essere le conseguenze del fenomeno per la collettività d’origine.
La prima considerazione che possiamo fare è che a scegliere la strada dell’espatrio sono in genere le persone dotate di maggior forza di volontà, intraprendenza e capacità di adattamento e quindi sostanzialmente la parte migliore, più attiva e in genere anche giovane di una comunità.
Per la nazione di provenienza si tratta di un autentico dissanguamento delle energie migliori, solo in minima parte compensato dalle rimesse più o meno cospicue di cui potranno godere i membri dei singoli nuclei familiari rimasti in loco.
Il depauperamento in termini di capitale umano genera infatti una perdita secca per la società e tale depauperamento è destinato tra l’altro ad accrescersi allorché vengono posti in essere i ricongiungimenti familiari, che sanciscono una cesura radicale non solo fisica, ma anche simbolica e affettiva con la madrepatria.
L’esito inevitabile di tale processo è così l’attivazione di un circolo vizioso in forza del quale la povertà genera emigrazione e dato che ad emigrare sono in genere i “più validi” ne conseguirà un ulteriore depauperamento, che genererà altra emigrazione…e così via all’infinito.
Dobbiamo allora chiederci innanzitutto se è opportuno arginare questa spirale nell’interesse primario dei Paesi da dove provengono questi flussi che sono, nella presente fase storica, i Paesi in via di sviluppo di Asia e Africa e se la risposta è affermativa dobbiamo chiederci inevitabilmente anche come agire.
Essendo l’umanità in difetto di bacchette magiche in grado di risolvere in un batter d’occhio fenomeni epocali di questa portata, ognuno di noi può e deve sentirsi legittimato a proporre via d’uscita. L’ideale sarebbe ovviamente l’adozione di una strategia win-win, tale cioè da garantire vantaggi per tutte le parti interessate: in questo caso il Paese d’origine, il Paese ospitante e il migrante.
Il modello forse più interessante è quello della cosiddetta migrazione circolare.
Si tratta di un’emigrazione solo temporanea e di durata variabile, la cui finalità è quella di consentire all’ospite di accrescere il proprio capitale umano sulla base delle proprie attitudini personali, attraverso ad esempio l’acquisizione delle competenze necessarie a costituire e portare avanti un’idea d’impresa, piuttosto che la gestione efficace ed efficiente di un’amministrazione pubblica oppure ancora lo svolgimento di attività pratiche più o meno complesse.
L’idea quindi dovrebbe tendere a riprodurre ed estendere l’idea degli stage aziendali, nelle istituzioni o in altro ambito, ma sistematizzandola e adattandola al mondo dell’emigrazione.
A conclusione di questo periodo formativo, la cui durata potrebbe ad esempio variare dai due ai sette anni, lo spazio lasciato vacante potrà essere messo a disposizione di un altro ospite, proveniente dallo stesso o da un altro Paese e con attitudini analoghe, vocato quindi al mondo aziendale piuttosto che a quello della politica o della burocrazia o più semplicemente verso lavori manuali o intellettuali di qualsiasi tipo.
Il legame del suo predecessore con il Paese che l’aveva accolto non dovrebbe in ogni caso venir meno e in questo senso sarebbe opportuno predisporre tutti gli strumenti adatti a continuare a seguirne le vicende, supportandolo nelle eventuali difficoltà che si troverà ad affrontare nel riadattare le competenze acquisite ad una realtà diversamente complessa.
La migrazione “circolare” dovrebbe rientrare in ogni caso all’interno di un più generale programma di ricostruzione e sviluppo, simile nelle intenzioni e auspicabilmente anche nell’efficacia rispetto all’ormai temporalmente lontano ma eccezionalmente efficace piano Marshall (che fu messo in atto nel dopoguerra dal governo americano in un’Europa prostrata dopo la fine del secondo conflitto mondiale), ma decisamente più vasto e impegnativo di quest’ultimo sia dal punto di vista delle aree geografiche interessate che delle risorse economiche da impiegare.
Quanto scritto a livello teorico potrebbe avere grande senso e (se ipoteticamente reso operativo) arginare uno dei più grandi problemi della Sardegna che è effetto e causa del sottosviluppo in cui ci troviamo da sempre: l’emigrazione (proprio delle risorse migliori: istruite, qualificate, più intraprendenti, e via dicendo)!
Se però si passa dalla teoria alla pratica, specie considerando i flussi di immigrazione che stiamo subendo, quanto scritto è totalmente PRIVO di aderenza con la realtà. I flussi migratori che stiamo subendo sono INDOTTI in grandissima parte (a livello numerico) da STORTURE introdotte dagli stessi Stati:
–lo stato italiano ha interesse ad avere una maggiore flessibilità nel proprio disastrato bilancio attraverso la scusa dei maggiori costi per la cosi detta accoglienza dei migranti. E’ ovvio che invece la maggiore spesa pubblica (di cui si chiede l’autorizzazione all’UE) è ordinata esclusivamente a fini CLIENTELARI (dalle cooperative per l’accoglienza, alle tantissime imprese che fanno business con soldi pubblici sui flussi) per generare e conservare VOTI, VOTI e VOTI (come la generalità della spesa pubblica )
–le cooperative o altre imprese con i servizi (di qualsiasi tipo con utente il migrante) fanno business, i proprietari / gestori di strutture ricettive fanno business, i tour operator o meglio le organizzazioni criminali che spostano queste masse fanno business, spesso riconoscendo il voto al politico che finanzia queste politiche di falsa accoglienza
Queste STORTURE alla fine fanno si che (a differenza della teoria sopra esposta), anziché arrivare individui intraprendenti, di valore, istruiti o qualificati (vera ricchezza per uno Stato che li riceve come hanno sempre fatto gli Stati Uniti!), arrivano delle persone assolutamente prive di queste caratteristiche (nella media si intende), molte delle quali sono semplicemente mosse dalla promessa dell’accoglienza e degli spicci (NUOVO CLIENTELISMO INDIRETTO: politico-business man-migrante) che gli vengono dati.
Il problema sarà ovviamente quando questi soldi pubblici finiranno: quando l’albergatore o il titolare dell’agriturismo non troverà più l’accredito del Ministero, così come la cooperativa o altra impresa non vedrà le sue fatture pagate perché non ci sono più i soldi pubblici per pagare tutto questo. Dove andranno queste persone che non sono istruite, non hanno qualifiche e non avranno un tetto, pasto o alcun spicciolo in tasca?
Saluti
il mio intento era presentare il problema migratorio da un punto di vista diverso quasi mai preso in considerazione. Continuo a credere che le persone che scelgono di mettere a rischio la propria esistenza partendo dall’Africa sub-sahariana, vendendo tutti i propri beni e affrontando un viaggio di migliaia di chilometri in cui rischiano la morte sono IN MEDIA la parte migliore della società da cui provengono. Un discorso completamente diverso andrebbe fatto per gli algerini che sbarcano sulle nostre coste dopo poche ore di viaggio in mare e che spesso sono mossi da intenzioni tutt’altro che positive.Il problema della gestione di un fenomeno migratorio incontrollato è ovviamente suscettibile di generare abusi di tutti i tipi, come quelli che hai citato. Quello che ho prospettato è un punto di vista, appunto teorico e quindi la cui fattibilità è tutta da dimostrare, in cui tutti i Paesi ricchi del globo si fanno promotori insieme di un piano di ricostruzione e sviluppo sul modello del piano Marshall che ha permesso la ricostruzione dell’Europa nell’immediato dopoguerra. Assieme alla ricostruzione sarebbe ovviamente necessario consentire ai Paesi beneficiati di accrescere il proprio capitale umano, attraverso di un piano parallelo di formazione delle classi dirigenti locali, nella pubblica amministrazione, nell’impresa etc…. Queste si potrebbero formare nei Paesi del primo mondo per poi operare nel proprio Paesi con il background acquisito. In ogni caso dovrebbe essere loro garantito il sostegno e il supporto dei Paesi più sviluppati nell’attività di implementazione delle nuove competenze. Come hai scritto questa ipotesi di gestione del fenomeno migratorio è suggestiva e in teoria valida. Quello che ho voluto sottolineare in questo intervento è che spesso ci si concentra su singoli aspetti di un problema complesso, dimenticando tutti gli altri. C’è da chiedersi perchè ad esempio quasi mai si citano o analizzano le conseguenze dell’emigrazione sui Paese di provenienza. E’ infatti probabile che una visione d’insieme sia in grado di fornire, oltre a diverse chiavi di lettura, anche soluzioni più efficaci.
Caro Alessandro, il presupposto da cui parti (una nazione o sistema economico che domanda e riceve dei flussi di immigrati si arricchisce perché riceve nella media persone intraprendenti, qualificate e-o istruite; viceversa la nazione da cui partono quelle stesse persone si impoverisce) è corretto e gli Stati Uniti sono un grandissimo esempio pratico e di concreto successo di ciò. Hanno beneficiato e (nonostante quello che si scrive dai media locali) continuano a beneficiare dell’afflusso delle migliori risorse da tutto il mondo, avendo università, aziende e anche le stesse istituzioni/enti pubblici pronte a riconoscere e premiare il merito indipendentemente dalla provenienza.
Il tuo intento e ragionamento che muovi (sulla base di questo giustissimo presupposto) è interessante e di valore. Personalmente vedo debolezze negli altri presupposti che poni: gli stati si devono mettere d’accordo, fare e condividere un piano comune, destinare risorse finanziare e via dicendo. Sappiamo bene oggi però quanto sono INCAPACI gli stati e i loro rappresentanti in primis ad amministrare i soldi pubblici per il bene comune: tutto è ordinato all’accrescimento o alla conservazione del potere, dal posto da eletto in un parlamento o consiglio o se trombato in un qualche ente, consiglio o altro, fino al ruolo di consulente o faccendiere. Tutti a succhiare e mangiare i soldi sottratti ai cittadini e alle imprese con intenti e formule teoricamente giuste (Tutti devono contribuire in ragione della propria capacità contributiva alla cosa pubblica), ma in concreto realizzate (la spesa di quei soldi) con fini molto più meschini come la cronaca ogni giorno ci da conto (dalle penne di pregio, ai rimborsi chilometrici incredibili fino ad arrivare alle consulenze, agli appalti o acquisti ben indirizzati).
E’ ora di abbandonare un sistema che non può essere più riformato.
Saluti e complimenti per stile e idee (sempre apprezzabile)
sa