(Pro lèghere s’artìculu in sardu pùnghere subra sa bandera in artu)

Ancora focolai di Peste Suina Africana, questa volta d’inverno: un’eventualità rara. Ancora un sindaco protesta, quello di Seulo. Il motivo è il blocco totale delle movimentazioni e macellazioni in un perimetro di dieci chilometri intorno al focolaio, così come disposto dalla normativa.

Il focolaio si è manifestato ad Aritzo e il raggio di dieci chilometri di blocco raggiunge anche Seulo, mettendo seriamente in crisi gli allevamenti locali.
Subito dopo, per un capolavoro assurdo del destino beffardo, lo stesso Sindaco si ritrova a dover emettere un’ordinanza di abbattimento per un nuovo focolaio, proprio nel territorio del suo stesso comune.

Puntuale la Regione prende la palla al balzo con il solito comunicato emesso per l’occasione, dove si afferma che il perimetro di sicurezza di dieci chilometri è una misura giusta e prudente, facendo notare che entro di esso si è verificato l’ultimo dei focolai.

L’allusione alla protesta del sindaco di Seulo è chiara, ma finisce per produrre il curioso, quasi comico equivoco di far capire che il focolaio di Aritzo abbia potuto causare quello di Seulo. In realtà non c’è nessuna logica che colleghi tra loro i focolai.

Nel frattempo un terzo focolaio colpisce nuovamente Aritzo, il cui sindaco si guadagna un buffetto affettuoso per la collaborazione nel segnalarlo e ordinarne gli abbattimenti. Nessun magistrato gli scriverà.

Sembrerebbe che la Sardegna sia stata divisa in sindaci buoni e sindaci cattivi. Alcuni, molto ascoltati, possono smuovere milioni per le calamità solo alzando il telefono, mentre altri vengono messi all’indice per essersi rivolti con dialettica poco rispettosa verso la Regione nella concitazione di un allarme maltempo, fortunatamente meno catastrofico di come prometteva.

Sindaci puntualmente redarguiti ed altri elogiati sperticatamente a seconda che siano più o meno critici con la politica regionale, sia che si parli di protezione civile, di peste suina o altre rivendicazioni.

Certo che se la peste si potesse combattere a forza di comunicati dei solerti funzionari della politica a quest’ora l’avremmo già dimenticata. La battaglia comunicativa contrapposta ha finito per far passare l’idea, falsa, che ci sia gente ostinata a vivere in assenza di regole e nell’illegalità.

Lasciar credere una simile assurdità serve a qualcosa? Può darsi che serva a quella sottile, machiavellica strategia, volta a tentare in tutti i modi di creare una spaccatura tra pretesi favorevoli e contrari alle regole.

Come dire: lasciamo che si facciano la guerra tra di loro e poi andiamo a fare la parte del terzo che gode, potendo così giustificare qualunque mezzo. Le nefaste conseguenze di strategie simili nella Storia evidentemente hanno insegnato poco.

Una cosa però emerge chiara: tre focolai d’inverno in allevamenti regolari dimostrano che il piano elaborato dalla Regione non sta funzionando.
Sappiamo che la malattia si trasmette per contatto diretto o indiretto, non per via aerea quindi.

Da decenni viene spiegato che l’utilizzo degli accorgimenti come le doppie recinzioni e precauzioni per tenere sterili e isolati gli allevamenti non consentono la diffusione della malattia.

Allora se il perimetro di sicurezza fosse inferiore a 10 km cosa cambierebbe? Le persone si spostano, gli animali selvatici lo stesso, il problema non sta nel tenere lontane persone o animali, sarebbe impossibile.

Il punto è piuttosto nel gestire correttamente l’allevamento. Non servono dieci chilometri, sono sufficienti pochi metri, quanti ne bastano per tenere il virus fuori dalle recinzioni.
Quest’anno, nell’area del Gennargentu, si è rilevato un enorme incremento della popolazione dei cinghiali, spesso ibridati, dovuto probabilmente alla forte diminuzione dei maiali bradi, macellati e a volte abbandonati, per paura degli abbattimenti.

La causa più probabile di questa riacutizzazione susseguita di vari focolai è da ricercarsi proprio lì. La stagione di caccia grossa raramente come quest’anno ha conosciuto carnieri così pieni, il primato del numero di capi abbattuti è proprio dei paesi di quella zona.

Niente di strano se tra i tanti cacciatori ci possa essere qualche allevatore, un suo amico, un parente, che, inavvertitamente o per leggerezza, abbia dimenticato di non utilizzare le scarpe usate per la caccia, ad esempio. Questo sì sarebbe molto probabile.

Sappiamo che i cinghiali sono il veicolo forse più pericoloso di trasmissione del virus e ai quali sfortunatamente non possiamo spiegare le regole sulla movimentazione emanate dalla Regione. Tra le misure di lotta ci sarebbe da prendere in considerazione quella di tenere aperta la caccia al cinghiale costantemente per qualche anno, per abbassare drasticamente la popolazione, agevolare il controllo e limitare la diffusione della peste dovuta alle migrazioni.

Ai successivi ripopolamenti si potrà pensare se e quando si riuscirà a debellare la malattia.
Una cosa dev’essere chiara però: nessuno vuole continuare a tenersi la peste in Sardegna; nessuno insiste a continuare ad allevare senza regole, tutti, proprio tutti, allevatori compresi, i quali non andrebbero colpevolizzati a prescindere.

Si deve cambiare atteggiamento nell’ascolto delle popolazioni più coinvolte, si ha il dovere di farlo se si vuole capire davvero il perché di certe resistenze.

Nessuno si è mai pronunciato per l’assenza di regole come si vorrebbe far credere, né sindaci, né allevatori, né tantomeno le popolazioni. Tutti, al contrario, in un primo momento hanno avuto fiducia, ma via via l’hanno perduta dopo tutto un susseguirsi di passi falsi che hanno prodotto un nulla di fatto.

Tutte le polemiche che si sono innescate non sono casuali ma partono dall’iniziale assenza di dialogo e vera consultazione.

La responsabilità dell’ente Regionale era quella di costituire e far rispettare regole condivise, lasciando ai sindaci la possibilità di interloquire con i propri cittadini, cercando di evitare quegli scontri sfociati poi in abbattimenti forzati e denunce alla magistratura per allevatori e anche per un sindaco.

Se si fosse evitato di arrivare a ciò oggi la lotta alla Peste Suina avrebbe avuto molti alleati in più. E non si tratta solo una critica, ma è voler cercare di analizzare meglio le tante sfumature del problema per trovare nuove soluzioni.

Purtroppo, però, per l’ennesima volta anche questo piano di eradicazione è nato a Cagliari, senza essere stato abbastanza condiviso con le popolazioni dei luoghi dove il problema è più grave. I vari interventi di modifica successivi sono stati elaborati tecnocraticamente a Cagliari, spesso senza avere nemmeno consultato i veterinari che lavorano sul campo.

Si continua ad applicare soluzioni tecniche e si ignora l’aspetto socio economico.

La condivisione è mancata anche dopo l’emanazione. Incontri cattedratici fatti in città e scarsa presenza nei paesi interessati, soprattutto di quegli allevatori non associati a cooperative o associazioni di categoria, quelli che, al contrario, si sarebbero dovuti sensibilizzare per primi.

In molti casi la richiesta di dialogo ha ricevuto una chiusura, si è temuto di stabilirne uno serio e paziente, come se da Cagliari le popolazioni del Gennargentu appaiano come composte da gente nascosta dietro muretti a secco, armati di lance e con la faccia dipinta di nero.

Ebbene vorremmo darvi una notizia. Quelle popolazioni sono fatte di persone che vorrebbero poter allevare con un minimo di redditività, con regole certe; non sentirsi abbandonate e perseguitate, ma aiutate; di persone che sognano di poter vendere finalmente i propri prosciutti senza doversi nascondersi come spacciatori per poter affermare apertamente la qualità del proprio prodotto, confrontandola finalmente con i celebratissimi spagnoli.

La speranza della fine della Peste Suina è un percorso disseminato di ostacoli come tutta la serie di limitazioni alla commercializzazione. Nonostante siano in vigore una serie di adempimenti e controlli obbligatori, questi non vengono ritenuti sufficienti per rendere meno limitativa la circolazione dei prodotti.

Non si vuol tener conto di una regola elementare: per favorire un comportamento bisogna renderlo economicamente conveniente. Invece spesso le regole studiate per il contrasto della P.S.A. hanno finito per avere effetto contrario. Così, finché chi alleva dovrà scontrarsi con ostacoli commerciali, non comincerà a crederci seriamente.

L’allevamento suinicolo in Sardegna soffre di molti mali. Non solo peste suina, ma debolezze strutturali di fondo. L’originario allevamento allo stato brado è stato fortemente ridimensionato e in certe zone si è finito per uscire definitivamente dalla regolarità. L’allevamento intensivo è totalmente di suini leggeri da carne e non esiste nell’isola l’allevamento di suino pesante da trasformazione.

Il mercato della carne suina segue gli andamenti di prezzo dei mercati del continente, per cui l’incidenza dei maggiori costi dovuti alla differenza di costi dei mangimi lo rende scarsamente remunerativo.

Bisognerebbe guardare lontano, riuscire a rovesciare la prospettiva, osservare la realtà da altri punti di vista, credere nella potenzialità dei prodotti di qualità, scommettere sull’allevamento semi-brado con suini alimentati in gran parte nei boschi. Investire su prodotti, oggi considerati clandestini, che possono ritagliarsi una vera nicchia di mercato d’élite, cercare di uscire dallo schema della produttività dei grandi numeri di stampo industriale per guardare a una dimensione più proporzionata e remunerativa.

Tutto ciò potrebbe essere possibile, vorrebbe dire correggere lo schema che da 40 anni non funziona, lo schema dove si nasconde la Peste Suina Africana.