A memoria di chi scrive mai come in questi ultimi tempi il tema dei paesi è diventato centrale. Ed è diventato centrale non per la politica, di questo scriverò poi, ma è diventato centrale anzitutto per chi i paesi li abita.

Mai come negli ultimi anni i riflettori si sono accesi su fenomeni come lo spopolamento, la mancanza di servizi, la dignità dei territori, i sindaci.

No, non si può derubricare questo argomento a semplice moda, o peggio ancora a fatto di costume. Sta succedendo qualcosa, specie in molte coscienze, qualcosa che sta portando chiunque a vedere i paesi come un nuovo mondo possibile.

È una nuova forma di autodeterminazione, forse la più rivoluzionaria, quella che sta succedendo, e riguarda migliaia di abitanti di piccole comunità che piano piano si rendono conto di quanto siano indispensabili non solo loro, ma il luogo in cui vivono.

E questa cosa non succede quando si parla di paesi con gli occhi del visitatore, citandoli solo per le loro tradizioni. Questa cosa sta succedendo nelle coscienze e nei modi di fare delle comunità, che stanno riscoprendo una voglia nuova di sentirsi protagoniste.

Protagoniste nella discussione, nel dialogo, nel confronto.

Perché chi vede i paesi solo come luoghi di villeggiatura da visitare per le varie Cortes, per i carnevali tradizionali, durante le celebrazioni religiose che sanno di tradizione non può capire. Chi li vede così li guarda dal centro verso la periferia.

E invece bisogna invertire la rotta dello sguardo. Bisogna ascoltarli quando sono in silenzio i paesi. Bisogna viverli in una giornata normale per capire a fondo chi e come ci vive.
Il silenzio dei paesi ci parla. E ci dice quanto sia difficile la vita qui. Talvolta senza servizi. Talvolta senza scuole. Talvolta senza giovani.

Troppo spesso senza figli.

Bisogna ascoltarli il lunedì mattina in paesi, non nella domenica delle gite fuori porta.
Il lunedì quando i baristi fanno il caffè sempre alle stesse persone e gli anziani affollano le piazzette. Si capirebbe, il lunedì, che il silenzio dei paesi è più rumoroso di quel che si pensi.

Abbiamo già detto in altre occasioni, di come troppo spesso negli anni passati si è pensato di pavimentare bellissimi centri storici senza curarsi delle case vuote intorno. Si è già detto come i modelli industriali abnormi e invasivi abbiano modificato l’abitare le campagne e l’operosità delle persone verso un futuro da operaio anziché da artigiano, agricoltore, pastore.

Ma adesso che il dibattito è così aperto e vivace potrebbe il momento giusto per un forte investimento sulle persone. Investimenti sui cittadini che prevedano nuovi modi di abitare e di accesso ai servizi. Perché sono le persone le vere ed uniche portatrici di vita nei paesi. E per far abitare i paesi le persone vanno rese protagoniste, coinvolte, interpellate.

Vanno costruite politiche di sviluppo che partano dai luoghi e dalle persone e non dalle risorse. Ci sono esempi che vanno in questo senso: interi territori che si mettono insieme e programmano il futuro. Da quegli esempi bisogna copiare.

Il problema è quest’isola. Un’isola sempre in bilico tra l’assistenzialismo e gli affari di pochi eletti. Un’isola in cui il favore dei pochi viene confuso con un diritto dei tanti. Un’isola in cui l’emergenza è diventata un modello di gestione utile per tergiversare e rinviare decisioni.

Ma l’autodeterminazione non passa per tavoli di concertazione e nomine nei cda.

L’autodeterminazione passa per le persone.

E ascoltando il silenzio dei paesi.

Ascolta, figlio, il silenzio. È un silenzio ondulato, un silenzio, dove scivolano valli ed echi e che piega le fronti al suolo [Federico Garcia Lorca]