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La prima cosa che si nota quando si osserva il sistema delle cooperative in Sardegna è la percezione da parte dei propri associati i quali non le sentono proprie, come giustamente dovrebbe essere essendone soci, ma come la controparte a cui vendere la propria produzione, un cliente qualunque da cui difendersi.
Eppure le cooperative sarde sarebbero uno strumento formidabilese guidate nella maniera giusta. Pensiamo alle quantità di latte trasformato e ai fatturati che ogni singola cooperativa sviluppa ogni anno.
Consideriamo che queste grandi strutture, generalmente moderne ed attrezzate, sono di diritto nelle mani dei soci produttori.
Essi potrebbero e dovrebbero deciderne le politiche produttive e commerciali. Nella realtà però non è così. Sembra come se gli allevatori non riescano a percepire l’organizzazione collettiva come una cosa propria, un’entità di cui loro non solo fanno parte, ma ne sono l’anima stessa.
Nessuno dei pastori si sente “azionista” della propria cooperativa come consapevolmente lo sarebbe qualsiasi investitore in una qualunque società per azioni.
Invece no, nel caso dei pastori la cooperativa è vista come un acquirente qualsiasi e tutte le scelte economico produttive e delle politiche commerciali non sembrano affare loro. Le nomine dei consigli d’amministrazione avvengono soltanto per espletazione formale e difficilmente in base ad un piano industriale che il candidato propone.
Mai si pensa ad investire in professionalità differenti da quelle strettamente produttive, favorendo così lo sviluppo di strutture produttive capaci di realizzare prodotti eccellenti dal punto di vista qualitativo, ma non sempre coerenti con le richieste e l’evoluzione del mercato. Investire in professionalità manageriali è ancora oggi un miraggio.
Proviamo ad immaginare come potrebbe trasformarsi il sistema cooperativistico con l’adozione di sistemi di gestione manageriali. Prima di tutto, e lo ripetiamo, quando si va ad eleggere un consiglio d’amministrazione, si deve tener conto dell’importanza che riveste un organo esecutivo chiamato a gestire attività e fatturati milionari. Perciò non è sufficiente dare incarico a persone solamente sulla base della correttezza e della rispettabilità e dell’amicizia.
Oggi per gestire sistemi economici di tale portata è necessario avere un minimo di competenze e di informazione necessarie se non altro per prendere coscienza delle complessità e dei propri limiti. Di conseguenza essere capaci di individuare, riconoscere e saper valutare un piano industriale ed eventualmente, le qualità di un manager che lo propone.
Abbastanza spesso invece, capita che a discutere contratti, strategie commerciali e produttive, siano i consiglieri e lo stesso presidente delle cooperative. Ma questo non è il loro lavoro, per questo dovrebbero delegarlo a figure competenti in materia.
L’obiezione che si riscontra più spesso è questa: come si fa a pagare una manager anche centomila euro se non ci sono i soldi per pagare adeguatamente il latte agli allevatori? Chiaramente per cooperative che fatturano milioni non sarebbe un problema destinare una piccola percentuale del fatturato al management. Un investimento senz’altro dal ritorno molto elevato.
Generalmente un contratto di management si fa sulla base di premialità del raggiungimento di precisi obiettivi. Obiettivi come il prezzo medio di vendita del prodotto, un determinato fatturato, un risultato di esercizio che garantisca una remunerazione minima per il latte conferito dai soci, potrebbero prevedere ciascuno un premio in danaro per loro raggiungimento.
Sarebbe quindi il lavoro stesso del manager a produrre più del denaro necessario a remunerarlo.
Ma andiamo a vedere come potrebbero cambiare le sorti di una cooperativa ben gestita e quali sarebbero le ricadute sui soci e, se il modello fosse seguito da tutto il sistema cooperativo, su tutto il comparto.
Prima di tutto bisogna considerare che il sistema delle cooperative, trasforma una fetta molto consistente del latte prodotto in Sardegna. Dati Coldiretti del 2011 parlavano di circa 150 milioni di euro, pari al 40% del totale. Con cifre del genere nessuno dovrebbe aspettare a trattare con gli industriali per decidere gli andamenti di mercato. Con cifre di tale entità si potrebbe tranquillamente decidere di una strategia comune, la quale da sola basterebbe a influenzare la direzione del mercato.
Nelle aziende private, se volessimo prenderle come modello, mediante il controllo di gestione, si va a vedere quali sono i prodotti a maggior valore aggiunto, quelli che invece producono un margine insufficiente o addirittura possono essere in perdita. Sulla base di questi dati si prendono decisioni sulla politica produttiva e commerciale aziendale.
Conseguentemente la decisione può essere quella di incrementare la produzione di un determinato prodotto a discapito di altri; di decidere di inserire nuovi prodotti remunerativi come i formaggi molli in vaschetta o gli spalmabili dal crescente successo; i tradizionali frue o casu axedu oppure i piccoli formati.
Questi prodotti, adeguatamente promossi, possono ottenere successoanche attraverso la grande distribuzione. Lo dimostra la diffusione in questi canali dei vari formaggi francesi molli o in vaschetta,molto differenziati e dalla gamma molto estesa.
Sono prodotti che spuntano ritorni alti anche grazie ai formati ridotti, lo scarso calo di peso, e il prezzo di vendita per kg molto alto.
Le cooperative non avrebbero difficoltà a mettere in piedi un’adeguata struttura a supporto di un marketing robusto. Sono questi i primi strumenti che servono per cercare di inserirsi con successo anche nel mercato extra sardo. La mancanza di una struttura commerciale e un supporto di marketing adeguati,probabilmente è ancora il maggior punto debole.
Si potrebbe obiettare che queste cose costano soldi. Ma se si ha idea di quanto ogni anno la Regione stanzia per la promozione, con i bandi per le partecipazioni a fiere, l’internazionalizzazione ela promozione per le Organizzazioni di Produttori, la risposta viene da sé.
Si tratta invece di decidere di investire le risorse in modo produttivo e evitare, come capita spesso, di affidare progetti di questa importanza a soggetti inadeguati, senza una seria selezione per scegliere professionisti dal curriculum importante e dalla comprovata professionalità.
Oggi il sistema distributivo è quasi totalmente controllato da soggetti non sardi, sono pochissime le strutture distributive a controllo sardo. Occorre contrastare questo evidente squilibrio. A questo proposito, perché non pensare anche di investiredirettamente nella rete distributiva?
Questa ipotesi potrebbe benissimo essere presa in considerazione insieme a quella di investire direttamente sulle strutture distributive esistenti.
Come sappiamo alcune strutture della Grande Distribuzione Organizzata sono andate in sofferenza e hanno cercato soci che potessero ricapitalizzare le aziende, questo potrebbe essere un vantaggio competitivo molto importante, dato che la GDO nazionale ed estera ha invaso massicciamente la Sardegna.
Per i padroni della rete commerciale sarda siamo noi le pecore da mungere in questo momento.
Bisogna contrastare questa debolezza valutando l’ipotesi di farnascere una rete di distribuzione sarda, totalmente controllata da sardi, ma soprattutto controllata dal mondo produttivo sardo.
Una catena distributiva che privilegi le produzioni sarde, detenuta da azionisti del mondo produttivo isolano, potrebbe dare una spinta ad un settore che troppo spesso soffre per l’eccessiva dominanza del sistema distributivo su quello produttivo.
Il sistema cooperativo rappresenta una massa critica che detienequasi la metà della produzione e non fa niente per esercitare il formidabile potenziale che ha in mano. In apparenza non si rendeconto di averlo.
Mentre il mondo della pastorizia accusa gli industriali per la crisi infinita, la controparte vera è divenuta il sistema distributivo, il quale da solo attualmente può decidere la ripartizione del valore lungo la filiera.
Il potere contrattuale di un sistema associativo adeguatamente coordinato sarebbe fortissimo e incisivo e lavorare sulle iniziative che di cui abbiamo parlato servirebbe ad incrementarlo ancora e a dare il giusto valore alle materie prime, distribuendolo equamente sulla filiera e facendo cambiare il rapporto tra i prezzi al consumo e quelli alla produzione.
Riprendere il controllo della filiera per valorizzare adeguatamente la propria produzione, potrebbe esserequesta la chiave della soluzione.
Il marketing, la diversificazione produttiva, la distribuzione gestita in altro modo. Ha ragione, eccome se ha ragione. Non concordo sul fatto che siano moderne e attrezzate. A parte alcune, la maggior parte e’ molto indietro dal punto di vista tecnologico e del risparmio energetico. I pochi margini e utili, che potrebbero essere re investiti per fare altro, vengono impiegati per far fronte agli alti costi di produzione. Ecco che alla fine non rimane un cent per investire in nuove produzioni e sistemi di vendita o per cercare nuovi mercati. Non parliamo poi di come, alcune, sono amministrate….
Complimenti per la riflessione e sopratutto per le indicazioni propositive. L’unico neo della questione è che gli industriali fanno presto ad accordarsi perché si contano sulle dita di una mano mentre le cooperative difficilmente possono mettersi d’accordo perché sono tantissime e, come dici tu, non hanno una gestione manageriale ma affiliata alla linea di produzione degli industriali. Ci vorrebbe una gestione centralizzata e super partes del marketing (magari dal neonato Oilos) con il solo fine di valorizzare il latte sardo e remunerare adeguatamente tutti i soggetti del ciclo produttivo, a partire dagli allevatori.
Barore Emontes at’ingestadu. Su problema mannu de s’allevamentu sardu, e de tottu cussu meridionale, est chi sos allevadores et sos pastores non resessini a si leare cussu chi nois agronomos naramus “valore di trasformazione”. Custu valore podet diventare mannu, meda mannu, si sos pastores et sos allevadores an’a resessire a valorizzare comente si tocat su casu (et tottu s’atteru) produidu da-e per issos, cumpresu cussu chi poroduini in sos caseificios cooperativos. Ma, comente narat Barore Emontes, devene cumprendere chi essere sotziu de una cooperativa cheret narrere essere padronu, umpare a sos atteros sotzios, de cussa cooperativa. Devimus isperare chi sos giovanos chi sun’intrende in agricoltura lu cumprendana.
Il problema è sulle competenze manageriali. O ci sono o no! Quante cooperative sono attrezzate con sistemi di contabilità analitica? Quante sanno quali sono i margini di contribuzione di prodotto? I rapporti con la GDO poi… Dove sta e chi lo esercita il potere contrattuale? Poi ci sono i manager di alcune cooperative, molto bravi…, che fanno tutto quello che vogliono… In questo caso i soci sono una controparte.
bisognerebbe che le organizzazioni cooperativistiche, insieme ai nostri pastori, studiassero attentamente il c.d. “sistema Granaloro” riferito al latte vaccino: forse riuscirebbero ad avere delle idee forti per capire quale strada andrebbe imboccata…
La vita della campagna è sempre stata dura,oggi è a un bivio a prescindere dalle ricette miracolistiche,la tecnica e la managerialita’ ha solo posto i suoi “paletti”
Il problema della pastorizia sarda è stato enunciato con due parole nel primo articolo. Il vero problema della pastorizia sono i pastori la loro invidia ed il loro individualismo! Ma secondo voi quanti sono i pastori consapevoli del potere che hanno nell’economia isolana? Supponiamo il 10 al massimo il 15% ed il resto? Quanti sono capaci di capire che indotto abbia la pastorizia in Sardegna e quanto SFRUTTI tutti i pastori? Sono anni che, quando parlo con chi, come me, è cresciuto dietro un gregge di pecore, dico che il vero problema della pastorizia non sono gli industriali caseari, sono le cooperative dei pastori, per tutti i motivi che in questo terzo articolo sono stati molto analiticamente enunciati. E non solo, noi continuiamo ed essere la manna dal cielo di un intero sistema economico pubblico e privato ma, ahimè, non lo abbiamo ancora capito, siamo la fortuna delle ASL, di un intero sistema veterinario isolano che senza di noi non avrebbe senso di esistere e grazie a loro lo siamo per le case farmaceutiche che ci propinano medicine miracolose per malattie rare ed improvvise, venute guarda caso per lo più dall’Africa ( secondo le fonti ufficiali) oppure portate da virus prodotti in laboratorio ( ma queste sono solo tesi complottistiche), resta il fatto che a pagare siamo sempre noi.Lo siamo per tutti i CAF, autentica mangiatoia, con in testa COLDIRETTI, che da sempre si schiera a favore dei pastori, non perchè abbia a cuore la sorte del loro lavoro, ma solo perchè siamo la loro gallina dalle uova d’oro, un fatto su tutti lo dimostra, l’aver sostenuto in prima linea la norma che prevede che tutte le domande, la modulistica da inoltrare alle autorità competenti per Premio Unico. Benessere Animali, Compensativa etc etc non potesse più essere trasmessa da ogni singolo pastore in modo autonomo ma inoltrata solo tramite CAF.. Lo siamo per i mangimifici, cresciuti a dismisura come fatturato economico, nell’ultimo ventennio. Ormai il mangime o i mangimi, prodotti in una miriade infinita di miscugli, sono alla base di ogni singolo allevamento isolano. I più moderni, quelli dell’allevamento stanziale ed intensivo, a volte anche da stalla, lo dosano a peso per ogni capo, perchè tesi vuole che per produrre un certo quantitativo di latte la pecora deve mangiare, giornalmente, un certo quantitativo di mangime, se super proteico e da super lattazione è anche meglio. Domanda: ma i costi di produzione sono un optional o cosa? Siamo stati e siano ancora il pilastro che ha tenuto in piedi il settore edile isolano, e lo dimostra il fatto che quanto nei paesi e nelle città la crisi si è fatta sentire sempre più e nessuno ha più costruito nulla, solo nel mondo delle campagne si è continuato ad investire e costruire, spesso per necessità e ancora più spesso perchè obbligati ad adeguarci a tutte le nuove norme della Comunità Europea. Si potrebbe continuare ancora, ma penso e sono convinto che non ci sia un comparto del sistema produttivo dal primario al terziario che non tragga beneficio dalla pastorizia sarda. Qualche decennio addietro capitava spesso di sentire da vecchi negozianti, baristi e commercianti in genere una frese che in se racchiudeva tutta la potenza del mondo pastorale isolano ” cando no essidi su pastore non si movede su inari”.. Quanto è ancora attuale questa frase, se davvero in Sardegna si dovesse fermare la pastorizia tutta l’economia isolana subirebbe un tracollo. Purtroppo questo ancora non lo abbiamo capito, come non abbiamo mai capito che con l’individualismo continueremo sempre a fare il gioco di tutti quelli che campano di riflesso dal nostro lavoro. E inutile andare a protestare contro l’assenteismo della Regione Sarda, non è la Regione che fa le leggi di mercato, non sono gli aiuti che certificano l’importanza e la forza di un comparto produttivo, ma come scritto da Barore nei sui articoli, i punti sono altri e ci sono anche le soluzioni. E se un giorno questi aiuti comunitari non ci fossero più? Quante aziende riuscirebbero a stare in piedi senza quelle entrate? I nostri genitori 40 anni fà non avevano tutte queste sovvenzioni economiche, non davano i mangimi a peso, anzi non ne davano proprio se non per uno o due mesi all’anno, ma granturco, possibilmente prodotto in Campidano, andato a prendere con i camion direttamente da produttore, da quei produttori che ora non ci sono più perchè strozzati dalla grande distribuzione e da tutto il resto. Non seminavano gli erbai con avena e orzo francese, spagnolo o rumeno, ma lo andavano a prendere sempre lì nel granaio d’Italia, in quel Campidano desertificato e reso improduttivo per far posto a distese di pannelli fotovoltaici ( ehh la green economy). In ogni paese esisteva una Cooperativa di pastori, che non aveva la pretesa di gestire fatturati di non so che dimensione, ma era utile per gestire il pascolo in modo equo nei terreni demaniali, lo era per trattare il prezzo del latte con gli industriali, lo era per gli approvvigionamenti di mangimi e sementi prodotti in Sardegna. Che paradosso, i nostri padri, senza alcun titolo di studio conoscevano e sfruttavano la filiera corta e avevano capito l’importanza dell’unione per la gestione di alcune problematiche legate alle loro produzioni e noi “Moderni” non abbiamo fatto altro che dividerci sempre più sino a diventare individualisti in maniera spasmodica capaci di unirci solo quando c’è da andare a sbraitare sotto i palazzi del Consiglio Regionale o davanti ai Caseifici di qualche industriale e incapaci di capire che il vero problema non sono loro ma siamo NOI!
Faccio un copia incolla dei tre articoli perché ritengo che il momento delle analisi sia racchiuso nei tre bellissimi e densissimi pezzi pubblicati. Le idee ci sono, e sono quelle esposte nelle tre puntate, i problemi son noti, e sono proprio quelli indicati a tre riprese, il progetto può nascere…
È necessario mettere in cantiere un programma per invertire il trend e dare ricchezza a questo comparto che fa parte a pieno titolo della cultura di noi sardi.
Chapeau…
Un saluto.
Si è aperto un vero dibattito sui veri problemi del mondo agro pastorale, tutti gli interventi hanno messo a fuoco i veri problemi, ma l’articolo del Direttore Murony ha ce tratto appieno anche le soluzioni. Il problema non è che non ci sono le proposte, il problema sono e restano i pastori che continuano ad essere pastori, e non imprenditori.Mi trovo in piena sintonia con il DIRETORE.
Concordo in pieno sul contenuto dell’ articolo.Vorrei aggiungere qualcosa che riguarda la produzione e la tecnologia dei pecorini prodotti sopratutto in cooperativa.Quasi tutta la produzione viene assorbita dal classico pecorino romano e in minima parte dal semicotto.Ottimi qualitativamente ma non più apprezzati dalla grande distribuzione.Io faccio il casaro più o meno 30 anni e i prodotti non sono cambiati granché sopratutto come formato.Formati sempre troppo grandi che vengono porzionati sopratutto dalla grande distribuzione con un ricarico dei prezzi che non arriva nelle tasche dei produttori e dei pastori.Da due anni lavoro in Corsica in un grande caseificio e ho potuto acquisire nuove competenze sulle loro produzioni.Non mi dilungo sulla qualità, comunque ottima,dei formaggi che produciamo ma sopratutto abbiamo dei formati che partono dai 250 gr ,350, 400 venduti in vaschetta o incartati con stagionatura anche di soli 14 giorni.Produzioni facilmente realizzabili anche in Sardegna se solo si avesse la volontà di proporre questi formaggi alla grossa distibuzione e non solo.Aggiungo che il prezzo è almeno doppio rispetto al prezzo dei pecorini venduti in Sardegna.La porzionatura viene fatta da noi con macchine di ultima generazione a partire dai 50 gr in atmosfera controllata.Come vedete tutto è possibile ormai .Aggiungo un ulteriore motivo di riflessione.Siamo due casari sardi responsabili della produzione e anche il capo magazzino è sardo.Nel 2015 e nel 2016 abbiamo lavorato mediamente più di 1 milione di litri di latte sardo per anno e il fabbisogno di latte di pecora in Corsica è coperto anche da latte che arriva dal continente francese e dalla Spagna.Fino a pochi anni fa in Corsica si producevano formaggi qualitativamente non eccelsi ma poi avvalendosi anche di personale sardo è molto migliorata tecnologicamente la produzione e con studi di mercato mirati si è capito il tipo di prodotto che serviva.Per finire il latte corso viene pagato intorno a 1,50 euro al litro.
Mi trovo completamente d’accordo con l’articolo ma vorrei segnalare due problemi: il primo è che molte cooperative tra la fine degli anni novanta e i primi del duemila hanno rimodernato gli stabilimenti (tramite i fondi POR) per un tipo di produzione dedicata quasi esclusivamente al pecorino romano, ora la diversificazione che tutti auspichiamo si scontra anche con questi problemi strutturali.
Il secondo problema è che le politiche di marketing per le dop dovrebbe avere come base il supporto dei consorzi di tutela, cosa che non ho mai visto per i formaggi sardi.
Molto concreto ed interessante,purtroppo molti allevatori hanno impegni di vecchia data con l’industria privata;nel frattempo l’industria privata si rifornisce di latte non sardo per produrre Sardo,questo deve finire.
Io non aggiungerei altro che un …. a buon(i) intenditor(i) poche parole… ma tant’é !!!!! Fino a quando il mondo dei “pastori” conferenti in cooperative non si rende conto che a gestirle non devono, ne possono esserlo, soci eletti consiglieri solo perché mostrano “muscolosità” nell’alzare la voce e/o influenti, numericamente, rapporti di amicizie e comparie, da cantina o da spuntini che siano, ed eleggono presidenti che a malapena sanno far di conto (se non i propri)….. solo allora si potranno affrontare discorsi quali quelli esternati nella bella analisi di Salvatore Demontis, che sia Barore va pure bene!!!
L’analisi di Barore sulla cooperazione agroindustriale Sarda più che mai utile nel momento di crisi del settore, a mio avviso carente rispetto alla trasformazione dell’ultimo decennio.
1) il sentimento di appartenenza matura nel tempo il livello di fidelizzazione nella cooperazione in generale è elevato.
2)in Sardegna le più interessanti innovazioni di prodotto e di processo sono ascrivibili alle coop.
3)i risultati della remunerazione del latte negli ultimi 10 anni sono mediamente superiori del20% rispetto agli acquisti dell’industria privata.
4) la sciagurata scelta del precedente governo regionale di smantellare le organizzazioni dei produttori di dimensioni minime ad un fatturato di 30 milioni riportando la dimensione minima a 1,5 milioni di euro di fatturato a sancito per decreto che i produttori (troppi) e la commercializzazione del prodotto solo ed esclusivamente in mano alle stesse (vecchia la storia della cessione alle industrie Sarde)
5)La frammentazione dell’offerta commerciale è il vero problema del sistema, la presenza di almeno 40 operatori (industriali e coop) che offrono sul mercato un prodotto come il Pecorino Romano, senza nessun strumento di autoregolamentazione della produzione,peggio ancora dell’offerta mercantile alimentata fattori ribassisti in un’ottica di soppravivenza rispetto ai consumi medi inalterati o in leggera crescita degli ultimi 6 anni.
6) Prima ancora di individuare le soluzioni manageriali, necessarie occorre semplificare il sistema i 40 produttori di pecorino Romano valgono oggi in termini di fatturato quanto la 3 A di Arborea.
7)Pensare al sistema della distribuzione organizzata in un’ottica Sarda o Nazionale è ininfluente rispetto ad una destinazione mercantile al 70% estera e comunque sempre con peso contrattuale pari allo zero ( vale anche per aziende per dimensioni e fatturato 10 volte quello dei produttori Sardi nel suo insieme).
8)I nostri punti di forza sono l’unicità del prodotto e l’auto regolamentazione delle produzioni
è il riposizionamento nel mercato USA, in speciality food.
Parlo di Pecorino Romano perché è la massa critica che determina il prezzo del latte, oggi tutte le più importanti aziende della trasformazione sono dipendenti dalla DOP PR.per almeno il 70% del loro fatturato nel migliore dei casi.
UN NUOVO PIANO DI RINASCITA DEL SISTEMA AGROINDUSTRIALE SARDO.
E LA SOLA SOLUZIONE STRSTEGICA PER IL SETTORE
Finalmente un analisi che non fa una piega!
Condivido pienamente ,una buona parte delle coperative esistenti in Sardegna si appogino a un industriale per vendere il romano all’estero