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Le riflessioni del direttore Anthony Muroni e alcuni commenti recenti hanno il valore di sollevare l’urgenza di un piano di iniziative necessarie a dare corpo ad una politica economica di interventi in grado di delineare un futuro di speranza e di mutamento radicale della Sardegna.

Il seminare idee e proposte alternative al dominio dell’economia attuale, significa contribuire a creare quel terreno fertile da cui potranno nascere quei programmi specifici che molti si attendono, ma che spettano ad una Soggettività Sardista organizzata.

Sono del parere che l’andare su questa via debba volere dire anche orientare la lente di ingrandimento sul ruolo che la Grande e la Piccola Impresa esercitano in Sardegna.

Se la loro funzione sarà quella di perpetuare le attività con metodo verticistico, la fuga del profitto continuerà e aumenterà l’impoverimento, anche se l’Istituzione Regione verrà conquistata politicamente, come spero, da una Soggettività Sardista animata dal valore della galassia dell’indipendentismo e dal rifiuto del neocolonialismo.

E’ lampante che il capitalismo verticistico, a conti fatti a termine di un anno di attività, spartisce le azioni tra chi le compra, ed in questo modo non si ha nessuno reinvestimento e crescita allargata in senso orizzontale con nuove imprese nel territorio.

Il profitto viene usato come massa finanziaria, come ricchezza in quanto tale, come patrimonio di soldi che si accumulano e si depositano nelle banche con lo scopo di auto-alimentarsi con il sistema degli interessi e della speculazione finanziaria.

Al verticismo, al capitalismo di puro mercato, dovrebbe essere contrapposto un nuovo principio, quello della circolarità estensiva e allargata sul piano orizzontale, in grado di generare nuova impresa, nuova imprenditorialità che diversifichi in Sardegna le produzioni, che superi il modello della mono-produzione, sempre esposta alle logiche di mercato.

Il profitto nella fase iniziale del Capitalismo è stato concepito solo come calcolo economico, come ricchezza che si accumula e si concentra nelle mani di chi detiene il controllo della produzione e del mercato.

Nel programma delle idee di una Soggettività Sardista Alta questo sistema meriterebbe una forte contestazione, poiché in una realtà di sottosviluppo e marginalità come la Sardegna, occorre un superamento di questa logica e l’approdo verso un nuovo ruolo, un Nuovo Valore, quello che si basa sui bisogni della gente.

Una riflessione etica del fatto economico ed imprenditoriale, e quindi politica in senso puro, conduce alla dimensione sociale. Anche su questa via in Sardegna si dovrebbe inseguire una svolta di tipo sociale.

Il profitto come valore che si accumula con il rapporto uomo fabbrica, uomo e impresa, è stato applicato dalle grandi imprese che hanno calato i loro progetti dall’esterno della Sardegna, vista come teatro di accumulo, che da una parte genera ricchezza, sfruttamento e dall’altra povertà e dipendenza economica.

In questo caso è illuminante il ruolo della Saras. Un ruolo quindi di terra occupata dagli insediamenti industriali che producono per interessi diversi, altri rispetto ai bisogni di equilibrio complessivo dell’Isola. La crescita si potrebbe innescare con una visione Circolare ed estensiva sul piano orizzontale del profitto d’impresa.

Questa idea, questa visione chiama in causa la presenza della Soggettività Sardista Alta sul piano della politica, che in una situazione come questa è intesa come autocoscienza pura di una realtà sociale, che nello specifico è sarda, di una consapevolezza dell’essere attuale e del dover essere futuro.

Se così non sarà, cioè se non verrà affermato l’aspetto etico del valore del profitto, che si estende in linea circolare e orizzontale, gli stati di crisi saranno permanenti, diminuiranno i posti di lavoro, mineranno ogni condizione di equilibrio sociale tra le persone, tra queste e la risorsa ambiente.

Un altro esempio da prendere in considerazione è quello di un Cementificio, che, nella mia esperienza di cronista delle periferie, mi è toccato di raccontare negli anni Ottanta del secolo scorso. I profitti di questa azienda, accumulati in notevole quantità ogni anno finanziario, sono andati sempre a finire fuori dalla Sardegna, dove il gruppo imprenditoriale ha la sua sede.

Nel corso degli anni la produzione non diminuiva, ma calavano, invece, i posti di lavoro e il numero dei dipendenti usciti dal ciclo produttivo non veniva sostituito in rapporto agli abbandoni. Non solo si accentuava questa tendenza, ma c’è da aggiungere un altro aspetto delle vicende imprenditoriali.

C’è da puntualizzare, infatti, che la direzione del gruppo imprenditoriale ha sempre messo da parte la proposta di diversificare l’attività e reinvestire una parte dei profitti con la creazione di una piccola impresa con lo scopo di produrre nel territorio i sacchetti di carta impiegati per imbustare e trasportare il cemento da immettere nel mercato.

Le buste di carta invece venivano prodotte all’esterno del mercato sardo. Sarebbe stata questa un prova di restituzione alle popolazioni del territorio di un accumulo di ricchezza, che nasce dallo sfruttamento dalla risorsa della pietra calcarea. Realtà di questo tipo sono diffuse in tutta la Sardegna e richiamano quanto avveniva nel Settecento sardo con il prelievo del corallo.

L’assenza di una Soggettività Sardista Alta, la presenza di un ceto politico debole e subalterno e privo di una coscienza dei bisogno della società civile, ha spianato la via alla fuga dei profitti del cementificio, e quindi al mancato reinvestimento in Sardegna di ogni processo di accumulo annuale di ricchezza.

Di contro una concezione circolare del profitto, affermata e messa in pratica in un’area marginale e con l’impresa che ha doveri sociali ed etici, avrebbe contribuito al superamento delle povertà, in quanto avrebbe creato nuovo lavoro con nuove imprese e quindi una estensione dello stato di benessere.

Questa visione e messa in pratica dell’economia farebbe assumere al profitto la qualità di eticità, in quanto chi detiene l’impresa che sta nel mercato e crea ricchezza, non si limita solo al calcolo economico, al puro principio matematico dell’autoconservazione come impresa, ma si estende nel sociale, nella società civile che cresce in armonia con la funzione dell’economia.

Con questa finalità si avrebbe quel legame tra i bisogni del territorio e la morale.

P.S.

Il bene comune presuppone il rispetto della persona umana in quanto tale, con diritti fondamentali e inalienabili ordinati al suo sviluppo integrale. Esige anche i dispositivi di benessere e sicurezza sociale e lo sviluppo dei diversi gruppi intermedi, applicando il principio della sussidiarietà. (…) Tutta la società- e in essa anche lo Stato- ha l’obbligo di difendere e promuovere il bene comune.
Papa Francesco, in Laudato si’