Lo scalo tecnico in Sardegna del presidente Xi Jinping e l’incontro informale con Matteo Renzi che ne è seguito sono serviti da spunto per entrare nel merito dell’opportunità che Pechino può vedere nell’isola.

L’attenzione rientra nei più ampi rapporti tra la Repubblica popolare e l’Europa, che i cinesi intendono rafforzare dando nuova vita all’antica Via della Seta, declinata in chiave contemporanea nell’iniziativa One Belt One Road, il progetto infrastrutturale marittimo e terrestre da 140 miliardi di dollari con il quale la dirigenza cinese intende creare una rete commerciale tra l’estremo oriente, il Vecchio continente e l’Africa

La cena a Santa Margherita di Pula tra i due leader ha rimarcato lo sguardo di favore che l’attuale dirigenza cinese ha per l’Italia. Nel 2015 il Paese è stato il secondo destinatario di investimenti cinesi in Europa dopo la Gran Bretagna.

Il voto sulla Brexit la mette anche in prima fila tra gli interlocutori di Pechino nell’Unione europea, anche per via delle recenti incomprensioni sino-tedesche (Berlino ha bloccato per ragioni di sicurezza l’acquisizione del fornitore di semiconduttori Aixtron e il commissario europeo Gunther Oettinger ha parlato dei cinesi riferendosi a loro con l’appellativo di “occhi a mandorla).

La benevolenza cinese si sente anche nonostante l’attuale ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, sia stato tra i principali sostenitori della necessità che alla Repubblica popolare non sia riconosciuto automaticamente lo status di economia di mercato, che renderebbe più difficile imporre misure di difesa commerciale contro le importazioni da oltre Muraglia.

È in questo quadro che si colloca lo scalo sardo di Xi . La scelta dell’isola è stata probabilmente dettata dalla volontà di non accostare quella del presidente cinese a una visita ufficiale, come sarebbe stato nel caso si fosse svolta a Roma. Il faccia a faccia è comunque servito a far conoscere la Sardegna ai cinesi.

Ne scrive Gian Luca Atzori su China Files (agenzia con cui chi scrive collabora) ripreso da Sardinia Post. Conclude Atzori: quanto successo “rappresenta una grandissima occasione di crescita” a patto che “si tenti di affrontare l’opportunità con l’attivismo e la lungimiranza amministrativa e aziendale necessaria, la stessa che spesso è mancata in passato”.

L’articolo ha suscitato la reazione di Giorgio Todde. Lo scrittore parla di amnesia, nello specifico lamenta il mancato riferimento alla condizione dei diritti umani e del lavoro così come della libertà d’espressione in Cina. E lo fa prendendo ad esempio la vicenda di Ai Weiwei, artista e attivista di fatto costretto all’esilio per le proprie critiche all’operato del Partito comunista.

“Dimenticare oppure omettere, non esercitare la critica e il dubbio e immaginare un mondo fatto solo dagli affari e non anche da diritti, rappresenta un modo parziale e colpevole di considerare le cose e la vita”, scrive Todde.

Negli ultimi cinque anni in Cina si è assistito a un progressivo restringimento degli spazi di manovra per i difensori dei diritti civili e dei lavoratori. Un punto di svolta possono essere considerate le primavere arabe a cavallo tra il 2011 e il 2012, il cui esito a messo in apprensione il Pcc.

Un’ulteriore stretta si è avuta sotto la dirigenza Xi Jinping. Il presidente e segretario generale del Partito comunista ha accentrato un sempre maggiore potere nelle sue mani, fino al riconoscimento della centralità della propria leadership nel corso dell’ultimo Plenum del comitato centrale che gli ha conferito l’appellativo di “cuore” o “nucleo” del Pcc.

L’ascesa di Xi si accompagna a una pressante campagna di uniformazione ideologica e un controllo più pressante su internet.

Il rallentamento della crescita economica ha messo a rischio il patto implicito tra il potere cinese e i cittadini: la legittimità del governo infatti deriva dalla capacità di garantire benessere.

Si teme che il possibile malcontento si traduca in proteste.
Per questo Pechino colpisce i veri agenti del cambiamento. Gli avvocati che attraverso il loro lavoro chiedono semplicemente l’applicazione di ciò che la Costituzione e le leggi cinesi prevedono.

Le realtà che organizzano i lavoratori, mal tutelati dal sindacato ufficiale che agisce come cinghia di trasmissione del Partito, gli attivisti per i diritti Lgbt, i candidati indipendenti che alle elezioni a livello distrettuale si presentano e sono spesso ostacolati dagli scagnozzi dei capobastone locali.

Si tratta della stessa “dissidenza” che in parte viene tollerata finché non rappresenta una sfida diretta al potere centrale, ma il cui lavoro sotterraneo spinge lo stesso Pcc e lo stesso governo cinese (che sono la stessa cosa) ad apportare correzioni alle storture del sistema.

Ed è a loro, più che Ai Weiwei, che bisognerebbe guardare. Non fosse per altro che l’artista ormai vive all’estero. Il governo gli ha ridato il passaporto e lo ha lasciato andare, mettendo il problema alla porta come già fatto con l’avvocato cieco Chen Guangcheng e con la leader uigura, Rebiya Kadeer, riparati negli Stati Uniti e sconosciuti alla maggioranza dei loro connazionali.

*Andrea Pira è nato a Nuoro nel 1983. Laureato in lingue e civiltà orientali fa parte dal 2012 dell’associazione Lettera 22. Dal 2009 lavora per China Files, occupandosi di economia cinese, Coree e Sudest asiatico. Scrive e ha scritto per MF-Milano Finanza, Internazionale, il Fatto quotidiano online, il Riformista, la Nuova Sardegna, l’Unione Sarda.