Dopo aver ospitato le opinioni di tanti altri, provo a dire la mia. Sapendo che – come ha detto Pierfranco Devias – chi tocca l’argomento lingua e Festival rischia di bruciarsi.

Parto da quella che a prima vista può sembrare una constatazione banale: manca una cultura diffusa della scrittura in lingua sarda perché manca un vasto pubblico di lettori in lingua sarda.

Manca un vasto pubblico di lettori in lingua sarda perché la scolarizzazione diffusa della Sardegna (lettura e scrittura corrente, lasciamo per ora perdere quanti capiscono davvero quel che leggono) è avvenuta in lingua italiana.

Il problema diventa dunque culturale, sociale e politico.

Possiamo criticare gli scrittori sardi “moderni”, se hanno scritto e scrivono soprattutto in italiano?
Tutto si può criticare. Ma forse non è questo il caso, se è vera la condizione su esposta.

Possiamo definire letteratura non sarda quella prodotta da sardi, in qualsiasi lingua, a partire dall’italiano? Tutto si può sostenere, ma non mi sembrerebbe proprio il caso di specie.

Il problema, dicevo, è culturale, sociale e politico.

Vogliamo salvare il sardo? Vogliamo arricchire le prossime generazioni di sardi, regalando loro una formazione bilingue, sin dai primi passi su questa terra? Vogliamo dunque, di conseguenza, creare un vasto pubblico di sardo-parlanti e sardo-leggenti? Serve un’operazione culturale, un patto generazionale.

Inutile insultarsi e cercare di rompere muri di cemento armato a colpi di testa, inutile cercare di commissariare qualcosa che già funziona, correndo il rischio di snaturarla senza ottenere nulla di concreto per la causa che si dice – certamente in buona fede – di voler perseguire.

Ho stima e sono amico di molti scrittori in italiano e organizzatori di Festival così come ho stima e sono amico di molti attivisti per la difesa della lingua sarda. Credo che si possa convivere e persino lavorare insieme, verso obiettivi comuni, facendo prevalere il buonsenso e valorizzando ciò che ci unisce (l’amore per la Sardegna e per la cultura) senza esacerbare ciò che ci divide.

Pensiamo a una grande operazione politica, culturale e sociale.