Nella provincia più economicamente disastrata della Repubblica c’è chi punta ancora sull’Eurallumina e sulla filiera dell’alluminio per agitare il miraggio del lavoro.

Fingendo di non vedere i disastrosi effetti economici e ambientali già profitti da quel sistema di sviluppo sbagliato (perché ora dovrebbe andare meglio delle altre volte?) con cinismo è miope calcolo elettorale, una certa classe politica e sindacale si sono (ri)saldate dietro numeri sparati a capocchia (oltre 500 lavoratori fra diretto e indotto, e un’opportunità di nuova occupazione per altre 300 persone) per rilanciare un processo produttivo che rischia di innescare una nuova escalation nel rischio  per la salute e per l’ambiente.

Ignorati gli allarmi e i dinieghi di medici, ambientalisti e Soprintendenza (che ha bocciato per ben due volte il progetto), si va avanti insensatamente verso un nuovo disastro.

Facciamo un po’ di storia.

Qualche anno fa a Devecser, in Ungheria, uno sversamento di 800 mila metri cubi di scarti della lavorazione dell’alluminio creò uno psicodramma in tutta Europa. In verità c’era di che allarmarsi: otto morti, 7 mila “profughi” dall’area del fiume inquinato e circa 40 chilometri quadrati trasformati in una immensa pozzanghera rossa.

Tutto questo per 800 mila metri cubi di materiale tossico. Un quantitativo infinitamente più piccolo dei quasi 20 milioni di metri cubi di quegli stessi scarti che, in circa un trentennio, si sono accumulati nel bacino di Portovesme. L’area di contenimento scavata nel 1975 dall’Eurallumina contiene fanghi rossi e scarti chimici velenosi, che si sono via via stratificati nell’arco di 33 anni, da quando la realizzazione delle enormi vasche pose fine allo scandaloso sversamento in mare, andato avanti per oltre tre anni.

Nel Sulcis il “colonialismo industriale” si è manifestato in maniera non troppo differente rispetto alle altre aree in cui l’industria di Stato ha creato posti di lavoro a termine, lasciando in cambio un inquinamento imperituro e mai bonificato.

Il bacino dei fanghi rossi è stato posto sotto sequestro dai carabinieri il 29 settembre 2009, quando l’industria di trasformazione acquisita un anno prima dai russi della Rusal aveva già cessato le sue attività da sei mesi.

Quel giorno i carabinieri del Nucleo operativo ecologico hanno dato esecuzione al decreto di sequestro del nuovo e del vecchio bacino (124 e 50 ettari) di stoccaggio dei fanghi rossi e della vicina area sulla quale insiste la sala pompe della centrale Enel. Il reato ipotizzato è il disastro ambientale doloso con inquinamento delle acque di falda, «cagionato dal bacino dei fanghi rossi».

La causa del sequestro? Quello scatenante fu la rottura di una tubatura, che collega la sala pompe della centrale elettrica al vicino stabilimento dell’Eurallumina. Nel marzo 2009 si era scoperta una rilevante fuoriuscita delle acque di falda, che si sono riversate sulla strada che separa i due stabilimenti. Le analisi avevano rilevato la presenza di fluoruri, boro, manganese e arsenico, in percentuali che oltrepassano i limiti consentiti dalle normative.

Ma questo è solo il coperchio di una gigantesca pentola di veleni, che a 25 metri di profondità è piena di una poltiglia che giorno dopo giorno s’insinua nelle falde acquifere del Sulcis e finisce in mare: non lontano dalla rotta dei tonni, che vanno a morire nelle vicine tonnare di Sant’Antioco e di Carloforte.

Come se non bastasse, nella stessa operazione i carabinieri erano convinti di avere portato alla luce un traffico illecito di rifiuti speciali e pericolosi, costituiti dalle acque di falda contaminate che, dopo vari passaggi, confluivano nel bacino di stoccaggio della Eurallumina. Una distesa di 120 ettari, compresa tra fragili argini di terra compressa, dove per decenni sono stati scaricati i residui di lavorazione della bauxite.

Da oltre sei anni la patata bollente è tra le mani del ministero dell’Ambiente, che il giudice ha nominato custode giudiziale del sito. Roma ha prima finanziato l’appalto per nuove indagini sul bacino, commissionate dal Comune di Portoscuso.

Sono state eseguite indagini geotecniche nell’area di Sa Foxi e anche una valutazione dei rischi che vengono corsi dall’abitato di Paringianu (frazione di Portoscuso, dove abitano 900 persone), che sarebbe la prima a pagare le conseguenze di un ulteriore sversamento.

Intanto c’è chi dice che nelle grandi vasche l’altezza dei liquidi velenosi dai precedenti 36 metri è scesa a 25: questo può significare che il bacino ormai ha sfondato nel sottosuolo, con tutte le disastrose conseguenze del caso.