(Pro lèghere s’artìculu in sardu pùnghere subra sa bandera in artu)

I successi tecnologici e scientifici hanno consegnato il mondo nelle nostre mani. Noi lo plasmiamo, lo modifichiamo, spesso lo violentiamo avendo sempre la percezione di essere quasi onnipotenti. Tutto, o quasi, si piega alla nostra volontà creatrice.

Dopo aver appreso nell’Ottocento della morte di Dio, ci siamo premurati di sostituirlo con il nostro (d)Io.

Ricchi di certezze e sempre troppo poveri di dubbi, ci comportiamo come se l’unica relazione di cui dobbiamo aver cura sia quella che s’instaura con i nostri simili. E con questi entriamo in rapporto polemico (da Polemos, “che attiene a disputa, a polemica, o che ne ha il carattere”). Per cui amiamo, odiamo, gioiamo, creiamo mondi spesso onirici a nostra immagine e somiglianza, lottiamo mossi da mille ideali o da tanti subdoli interessi e ci sbraniamo fra di noi.

Siamo genitori del Male e suoi figli naturali. Non ci curiamo troppo del fatto che siamo comunque immersi in un ambiente che spesso ci si rivolta contro.

Ed è proprio quando la Natura si abbatte con forza e durezza con inondazioni, terremoti, fulmini e altre sue manifestazioni che ci riscopriamo nudi, umani, fragili. Frastornati, ci volgiamo a destra ed a sinistra per reperire le cause di tanto accanimento.

La caduta di un fulmine o un terremoto in un territorio disabitato non son causa di dolore, di sofferenza; diversamente se dovessero colpire e uccidere un bambino, noi ravviseremmo in questo accadere, in queste manifestazione della Natura, gli estremi per dolerci, per individuare una colpa, ancorché astratta, da collocare entro una dimensione non definibile. Percepiamo questo accadere come la manifestazione del Male, in questo caso naturale, attribuendogli una colpa.

Il lamento del Sindaco di Amatrice: “Non so che male abbiamo fatto a Cristo”, questo sta ad indicare. Se l’accadere si trascina appresso una colpa, non ravvisarne in noi alcuna che giustifichi l’infierire della furia naturale, espone la Natura stessa alla colpa.

Quel domandare dice tutta l’impotenza dell’uomo di fronte alla violenza di una Natura avvertita come colpevole. E tale è quando entra in relazione con l’uomo, quando irrompe con violenza nelle nostre esistenze, ammorbandole ed intridendole di dolore e pianto. Perché se è Male tutto ciò che ci procura danno, anche l’irrompere degli elementi naturali nelle nostre esistenze è Male. E il Male è necessariamente legato ad un’infrazione, quindi ad una colpa.

Ma la Natura non ha coscienza di sé, neppure del Male che provoca: “Natura: Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.” (Leopardi, Dialogo fra un islandese e la Natura… Chiedo scusa per la citazione)

Molti dei disagi cui quasi inebetiti stiamo assistendo in questi giorni e che sembrano stringere in un unico gelido abbraccio le genti della Barbagia e quelle del Centro Italia non sono da addebitare ad una Natura matrigna, sono, invece, figli di una cultura che io definisco di rapina, del mordi e fuggi finanziario e globalizzato che elegge il facile guadagno a culla di ogni bene e di ogni felicità.

Ce l’hanno raccontato, ce lo spiegano nelle tv e noi, inevitabilmente, alle loro narrazioni abbiamo creduto. Non potendo opporre le nostre di ragioni intrise di sudore, fatica e stenti, dobbiamo crederci. Come, del resto, potremmo mai opporre al loro elevato sapere finanziario e capitalistico il nostro povero sapere, troppo legato al fango della terra e del territorio, alla stagionalità delle messi, ai bisogni delle mandrie e delle greggi?

Abbiamo capitolato.

La nostra politica e con lei le nostre istituzioni hanno imparato a riconoscere il suono del nuovo verbo che pian piano ha soppiantato quello dei nostri padri, troppo saturo della dura terra dei nostri territori. Tutto è economia e le relazioni fra umani a questa scienza dalle mille voraci bocche deve adattarsi, piegarsi, soggiacere.

I nostri politici non lo nascondono neppure più: ieri era Paci a comunicarcelo seraficamente, domani sarà un nuovo Messia a raccontarci che quando un servizio pubblico non è economico deve essere chiuso, cessato, cancellato. Allora via le scuole, le poste, la stazione dei carabinieri, i presidi medici, via i mezzi pubblici di trasporto… Via tutto ciò che occorre ad una comunità per sentirsi e percepirsi tale.

Espropriati del diritto di vivere. Perché la dea che servilmente serviamo non ci concede sconti e non può fare accordi con il sociale, che drena risorse che non producono sub prime da rivendere, affinché le sia procacciato il giusto nutrimento… indispensabile unicamente a lei, procace puttana! In un circolo vizioso inesausto che trova una pausa solo quando il mondo cui fa riferimento impazza e rigurgita il cibo dannato rubato alle anime dei paesi di Sardegna, del Lazio, di Abruzzo, delle Marche, dell’Umbria: quanto di più bello, vero e sincero esista in questo disgraziatissimo Paese chiamato Italia.

Presidiare e proteggere il territorio significa mettere in subordine le esigenze bulimiche della procace puttana finanziaria e globalizzante rispetto a quelle della comunità, perché il mondo, caro Paci, caro Pigliaru e chi altri non so neppure più, non è abitato dai finanzieri in doppio petto, neppure dalla loro dea, bensì da uomini, donne e bambini che hanno la disgraziata abitudine di avvertire i morsi della fame ed ancor più quelli atroci dell’anima; significa dispiegare forze, risorse ed energie e consentire a quelle comunità che ancor oggi salvano tutti noi e tutti voi dall’oblio totale di noi stessi, delle nostre radici, di premunirsi per salvare se stesse e salvare così anche noi.

Presidiare un territorio significa saper ascoltare l’esigenza che nasce dal cuore di quelle comunità, quindi dei suoi abitanti, di dotarsi di quegli accorgimenti (tecnologici, meccanici, animali, naturali) utili e necessari nei casi di emergenza; perché il presidio di un territorio significa abitarlo, ed abitarlo equivale ad avvertire la necessità di preservarlo, perché le fatiche e il sudore hanno insegnato ai nostri padri di immaginare lo scatenarsi della Natura, interrogando il cielo per prevedere l’evento. Ma se le campagne sono disabitate chi scruta il cielo e chi interroga la Natura per leggere nelle pieghe di una nube o nell’incresparsi di un fiume o nello screpolarsi di un terreno l’approssimarsi della furia della Natura? Un territorio senza anime che ci camminino sopra è desertico, morto, arido, è come silice.

Chi volete ascoltare domani, le sirene artefatte di una tecnologia matematica legata alla procace puttana o le voci del vostro popolo? Ma riuscite a sentirlo quest’urlo nel clangore delle chiacchiere di palazzo, intenti come siete fra oziosi drink e serate mondane?

So bene che non è tempo di polemiche, di ciò mi scuso, ma è davvero giunto quello dell’azione, dell’operatività: questo è il vostro popolo, che diamine aspettate a rispettarlo?