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La Berlino del 19 dicembre scorso non è la stessa dell’aprile 1945. Non è una città in mano ai russi e tenuta sotto scacco da un folle. Quella Berlino e quel mese di aprile furono un’apocalisse: i tedeschi scoprirono il velo che li accecava e capirono il loro destino.

Nella serata del 19 dicembre 2016, invece, Berlino dimostra quel che è già stato testimoniato da New York, Parigi, Nizza. Ma anche da Wurzburg, Monaco, Ansbach, per restare in Germania.

L’Occidente democratico, soprattutto l’Europa e chi vuole stare con l’Europa, è sotto un attacco costante seppure dilettantistico. Senza atomica, marina e aereonautica, un attacco invisibile e frammentato che opprime i suoi luoghi simbolo e li riempie di paura e angoscia.

Non parliamo di una guerra al fronte o in trincea, ma di semplici camion rubati e usati per ammazzare esseri umani. La scena del quotidiano diventa killer.

Non è la Berlino bombardata del 1945 ma spaventa lo stesso. Non ci sono case distrutte e quartieri rasi al suolo, ma focolai di terrore nel cuore della gente. Centri commerciali, musei, stazioni, chiese, mercatini di Natale, discoteche, rischiano di non essere più i luoghi per i bambini, per il divertimento e per la speranza, ma spazi poco sicuri e ricchi di dolore.

Sono almeno 39 le vittime dell’assalto avvenuto nella notte di capodanno nella discoteca Reina di Instanbul. Un club esclusivo e decisamente sotto controllo. Secondo alcuni osservatori è stato scelto dai terroristi perché simbolo della Turchia laica. Il califfato islamico e i gruppi jihadisti hanno preso di mira il Paese di Erdogan che non li appoggia più.

È guerriglia, non è apocalisse. Ma fa male, eccome se fa male. Il pianeta è piccolo, le distanze ravvicinate, i media catapultano in tempo reale le immagini della catastrofe nel teatro domestico e le conseguenze della paura si fanno sentire ovunque.

La strage si guarda emotivamente e si traduce in attesa politica. Emozioni internazionali condivise rendono garbatamente solidali, ma in un futuro non troppo lontano queste stesse reazioni potrebbero rivoltarsi contro le nostre democrazie.

Il rischio di attentati era cresciuto e di molto, lo si sapeva: l’Isis ha perso il 40% del territorio che era riuscita a occupare in Siria e in Iraq. Mosul, Taqqa e Sirte non se la passano bene, i misteriosi finanziamenti di un tempo non arrivano più e i bombardieri russi, adesso che si avvicina l’accordo con Erdogan e con Trump per dare più tempo ad Assad, stanno puntando il loro fuoco contro lo Stato Islamico.

Per i jihadisti, quindi, le cose si mettono male e quando ciò accade cresce il ricorso al terrorismo.

Ma il discorso è: e conclusa l’esperienza dell’Isis? Cos’altro nascerà? Per quanto tempo ancora vivremo spaventati? In questo Novecento che sembra ricominciare una porzione importante dell’autonomia personale perduta riguarda la sicurezza.

L’ideologia del progresso ha raccontato solo di vittorie e miglioramenti: una macchina inarrestabile, benessere per tutti. Invece, nel 2016, alle generazioni Erasmus e Millennials mancano le cose più importanti per essere davvero padrone di un certo tipo di società e di vita: l’autonomia personale (crisi economica) e la sicurezza nella mobilità (crisi nei rapporti internazionali).

Per il momento la Sardegna guadagna turisti, il terrore spinge la gente a non andare troppo distante da casa e a scegliere luoghi apparentemente sicuri. Ciascuno prega il suo santo. Pregadorias. Anche noi sardi, però, non sappiamo quanto potrà durare questa preghiera passiva.

In un modo o nell’altro siamo in ballo, forse senza esserne troppo coscienti. Eppure senza garantire autonomia personale e sicurezza non possiamo pensare di autogovernarci. “Quanto” intendiamo continuare a delegare allo Stato? O è più comodo e facile lasciare tutto così? Discorso complicato, lo so, ma si tratta “del discorso”.

La gente sarda vive in questo mondo e non in un altro, si spaventa come chi dorme ed esce a Marsiglia o a Pamplona. Dobbiamo acquisire capacità di vedere il mondo nella sua interezza e capire fino in fondo come ci siamo dentro. Più coraggio, più internazionali, meno vicere.