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Una risposta alle profonde riflessioni sul valore della indipendenza secondo Davide Casu e Vittorio Sechi.
Le frequenti riflessioni sulla indipendenza dei sardi costituiscono un tema di attualità che ritorna nelle discussioni che nascono nei momenti di crisi della “coscienza infelice”, quello stato d’animo che riemerge e si alimentata per la mancata soluzione dei mali cronici della nostra isola.
C’è chi questo tema lo argomenta e lo documenta come nascita di un sentire che deriva dal rapporto tra l’abitare il luogo Sardegna e ne introietta i valori, i rapporti interpersonali, gli odori, le asprezze e gli incanti della specificità delle varie forme del paesaggio.
E’ da questo sentire che può scaturire quell’onda emotiva che produce la poesia della solitudine, il canto della rassegnazione e della rivolta, il racconto e il romanzo corale delle ingiustizie.
Il suo frutto non è chiusura, come testimonia la profondità del narrare nella riflessione-confessione di Davide Casu, ma partecipazione e apertura a ciò che il mondo circostante offre. Dalla nobiltà di questo percorso è giunto il messaggio della indipendenza come viaggio individuale di ricerca e scoperta della sardità.
Ma c’è chi il concetto di indipendenza lo estende dalla sfera soggettiva a quella della condizione economica della nostra Isola e auspica con la pratica del principio del federalismo una partecipazione alla pari tra il futuro Governo sardo e il Governo Centrale che vincoli lo Stato e la Regione. Condivido del tutto lo spessore delle riflessioni di Vittorio Sechi. Su questo sentiero di idee mi va di camminare, concordando sul fatto che l’indipendenza del sardo non è da coniugare con la fondazione sul piano “giuridico” di uno Stato sardo.
Ma sulla base delle considerazioni fatte fino ad ora un nuovo ragionamento è inevitabile, tenendo conto del presupposto che deriva dalla Storia del dibattito culturale e politico in Sardegna: la Sardegna è sul piano della storia civile una “nazione mancata”, una “nazione senza stato”.
Concetti ricorrenti nei saggi di storia politica del Sardismo storico, come ricorrente è il concetto politico di Indipendenza che viene sollevato dai movimenti che la pubblicistica corrente ha definito neosardisti, e che si spera superino la frammentazione.
Un nuovo Stato o un Nuovo Statuto per l’Autogoverno?
E allora ammettiamo la svolta storica, cioè che in un tempo futuribile si arrivi alla indipendenza, alla fondazione dello Stato sardo indipendente; cioè alla pratica di tutti quegli elementi in cui si articola sul piano giuridico uno Stato, che dialoga alla pari con le altri nazioni diventate Stati.
Ammettiamo, poiché la nazione è una unità sociale con caratteristiche comuni di lingua, cultura, territorio ed economia, che questo fine si raggiunga. E ammettiamo anche che a dirigere la nazione sarda, che si organizza come Stato con la forma della repubblica, sia un ceto politico egemone come classe dirigente che propone, approva leggi negli interessi della nazione sarda e del suo bene primario. Interrogativo: le leggi che approverebbe riuscirebbero ad assicurare per tutta la comunità sarda il benessere unico per tutti? O rimarranno le disparità economiche, sociali che oggi sono presenti anche nelle nazioni che si identificano con lo Stato unico? Riuscirebbe lo Stato indipendente sardo a risolvere i problemi economici? E l’economia sarà in Sardegna in mano alle elite industriali e di progetto, così come lo sono in tutti gli altri Stati liberisti che fondano la loro essenza nella libertà individuale e di impresa? Rovesciare questa piramide non sarà possibile, a meno che dall’Alto del Soggetto Politico Governante e dal piano delle sue azione non scaturisca una morale che si lega al ruolo dell’impresa con nuove regole che in Sardegna mettano in atto un ruolo ‘circolare’ dell’accumulo del profitto.
Si tratterebbe di reinvestire quindi parte dei benefici e dei godimenti dell’impresa, che anziché trasformarsi in rendita finanziaria separata dal sociale, dovrebbe estendersi nel territorio, anziché concentrarsi nelle mani di pochi o nei forzieri delle banche. Questa scelta comporterebbe un nuovo operare con il fine di colmare quelle differenze che sono prodotte nello specifico dalle attività imprenditoriali e dalle disparità economiche.
La via sarebbe possibile se i sardi percepissero questo imperativo, cioè se nella nazionalità sarda di cui stiamo trattando siano in nuce le potenzialità in grado di esprimere una forma stato come mezzo che assumerà il benessere collettivo come primato da raggiungere.
Questo traguardo presuppone una rivoluzione culturale, un’alta coscienza collettiva alimentata dal sapere la storia di sé come popolo, dalla cultura in grado di sviluppare le capacità individuali e morali di ognuno, dal ruolo degli intellettuali che dovrebbero dichiararsi organici al superamento della dipendenza economica e della sudditanza della Sardegna: è tutto ciò che rende una nazione come “unità sociale” che aspira ad un futuro di autogoverno e indipendenza.
E poiché sul piano dei comportamenti la morale smuove l’interesse individuale per agire, frena l’istinto negativo e quindi l’ingiustizia sociale, non può essere “astratta” dalla realtà, ma applicata come comportamento reale positivo orientato al benessere collettivo.
Applicata su una sfera più alta, collegata all’economia, in fase di consapevolezza è posta nelle condizioni di far attivare l’intraprendenza nello stato d’animo in chi vive nelle terre marginali. L’azione politica, in linea con la nuova morale, che esalta la giustizia sociale, si muoverà nella strada feconda della ricerca di una strategia razionale che tende a raggiungere il benessere per tutti.
Lo sviluppo non è solo produzione di merci e consumo
Sono del parere che lo sviluppo non possa essere ridotto alla pura produzione di merci in misura sempre crescente da immettere nel mercato che richiede sempre merci da consumare all’infinito. L’equazione più sviluppo uguale più consumo meriterebbe un ribaltamento, occorrerebbe superare una visione legata al bene materiale in quantità crescente per arrivare ad un ruolo, come si deduce dal concetto stesso di Sviluppo, che non sia da identificare solo con il progresso materiale e le esigenze del Mercato.
Questo significa una nuova visione della società che rispetti l’equilibrio tra risorse disponibili: agricoltura, pesca e industria, e abilità intellettuali e conoscenze. Lo sviluppo ha bisogno di essere coniugato con l’aspetto sociale: cultura, diritti della persona, scuola, sanità, superamento della povertà.
Verrebbe superato su questa via lo stato di marginalità dei territori segnati dalla povertà che spinge le persone ad allontanarsi dalle terre del bisogno in altre dove le esigenze degli individui possono essere soddisfatte. Ritorna, sulla base di questi principi l’aspetto morale che si lega al lavoro e quindi ad un’idea di sviluppo che deve mettere insieme aspetti economici e risvolti sociali.
Se questi due elementi camminano insieme lo sviluppo si identificherà con il progresso collettivo, quindi il primo non può essere concepito solo in modo parziale, cioè come produzione crescente di merci per un altrettanto crescente consumismo da parte delle famiglie. In conclusione, basterà il riconoscimento e l’esistenza di uno Stato Sardo per la soluzione dei nostri problemi?
Ovvio che non basterà, ma è la condizione necessaria non sufficiente perché ciò avvenga.
Impossibile che avvenga quando subiamo le politiche dell’Italia, di cui siamo la periferia della periferia e non siamo mai all’ordine del giorno delle cose da risolvere.
Finalmente! Un’articolo che va direttamente al nucleo centrale di quello che dovrebbe essere il tema vero da affrontare. L’articolo offre diversi spunti che dovrebbero essere approfonditi; uno in particolare mi stimola a fare una riflessione: « l’aspetto morale che si lega al lavoro e quindi ad un’idea di sviluppo che deve mettere insieme aspetti economici e risvolti sociali», è chiaro che c’è bisogno di un’azione politica seria, coraggiosa e concreta che metta al centro l’interesse della Sardegna e dei suoi degnissimi Sardi. Bisogna porre in essere un’progetto che ci instradi in un percorso, che abbia un’obbiettivo preciso da raggiungere. L’indipendenza non è un’utopia, ma nemmeno semplice da “raggiungere”. Dobbiamo decidere con quale tipo di rapporto giuridico porci nei confronti dell’Italia; vogliamo un rapporto “simbiotico” e diventare uno Stato federato alla Nazione Italia, oppure essere uno Stato indipendente come per esempio Malta? Penso che dobbiamo affrontare da subito, CONCRETAMENTE, la questione. A breve a Sassari si costituirà un Movimento – che già da tempo lavora ad un progetto serio, concreto e ambizioso – aperto a tutti coloro che credono di poter andare nella direzione di un cambiamento epocale che non si può più rinviare.
e poi ci sono quelli che non basta, servono altri movimenti con progetti seri e concreti. Come se promuovere, rafforzare la collaborazione fra quelli esistenti non fosse già un progetto serio e concreto. Un altro movimento è quello che mancava. Per il resto d’accordo con Sella e le puntualizzazioni di Sechi ed anche Bomboi.
Certo, Movimenti che sono li fermi da decenni e che di concreto e serio hanno avuto qualche ” poltrona”.
Poi ci sono quelli che dicono che i giovani non fanno politica, se la fanno con nuove formazioni – ben venga la partecipazione – non va bene…
Ma dove stavate quando quelli che considerate “politici da mandare a casa” maturavano tutti i privilegi che oggi sono argomenti da usare in campagna elettorale? Una cosa è certa, la vostra generazione ha grosse responsabilità nei confronti di quelle di oggi. Almeno un po di rispetto per le opinioni e le modalità di partecipazione dei giovani.
Caro Vittorio,
perché la Sardegna sta funzionando male? La risposta è molto semplice: perché stiamo producendo poco e nulla a fronte di un ipertrofico apparato pubblico. Un apparato che assorbe e dissolve la poca ricchezza prodotta.
Ecco perché purtroppo trovo la tua ricetta non idonea ai problemi fondamentali dell’isola.
Ridurre la povertà è possibile solamente ampliando gli spazi di libertà del mercato, i soli entro i quali indigenti ed emarginati potrebbero trovare occasioni di riscatto sociale.
Non esiste altra forma di sviluppo umano possibile. E per un motivo altrettanto semplice anche in chiave redistributiva: se buona parte dei privati fallissero, o il loro ruolo venisse ridimensionato, non ci sarebbe più alcun valido gettito fiscale con cui assicurare i servizi di base a coloro che sono rimasti ai margini della società. A quel punto, anche se in una nuova Costituzione mettessimo al bando la povertà, questa si affaccerebbe comunque, perché non avremmo risorse per combatterla.
Personalmente non credo ai concetti decrescisti molto in voga di questi tempi, frutto di speculazioni demagogiche dalle basi alquanto fragili, già ampiamente squalificate da numerosi economisti.
Certo, probabilmente il benessere materiale non assicura la felicità, ma la miseria anche meno.
Non voglio sottrarmi però alla tua domanda finale: “basterà il riconoscimento e l’esistenza di uno Stato Sardo per la soluzione dei nostri problemi?”
La risposta è no. Come in ogni Stato indipendente, non esistono formule magiche per azzerare la povertà. La differenza però sarebbe quella di avere la facoltà (o meglio, la sovranità) per incidere su materie nelle quali oggi i sardi hanno poca o nessuna voce in capitolo. Pensiamo al fisco ed alla cultura solo per citarne due. E si tratta di capitoli che possono contribuire, a seconda della loro gestione, all’incremento della ricchezza e quindi del benessere diffuso. A me non spaventa una società con pochi ricchi, tanti benestanti e pochi poveri; a me spaventa una società con pochi ricchi, pochi benestanti e tanti poveri, quest’ultima già osservata in numerose esperienze socialiste e comuniste.
Il nostro indipendentismo attuale è un prodotto della guerra fredda, che come ogni ambito analogo oggi cerca giustificazioni teoriche alla prosecuzione delle proprie ideologie professate in gioventù. Penso che il muro di Berlino cadrà anche dalle nostre parti, man mano che il dissesto economico dell’isola andrà avanti. E solo allora sarà del tutto evidente quale approccio riformistico sarà necessario attuare per sopravvivere.
Vittorio Sella
Caro Adriano, grazie per le tue puntuali osservazioni, ma occorre dire che non ho voluto proporre ricette per i problemi e il futuro istituzionale della Sardegna, ma sollevare un problema che a me pare nascosto nel chiuso delle sagrestie di cui si beano certi sacerdoti della sardità e di cui si parla nella quotidianità specialmente quando i mali della società sarda si presentano in fase acuta e tormentano tutti i ceti sociali. E’ all’apice di questo dire che si sostiene “ci vuole lo stato sardo”. Perciò ho voluto ragionare su questa problematica, che non è di poco conto, ma che mi è sembrato utile e porla all’attenzione con lo scopo di allontanare miti e chimere presunte salvifiche. Non nascondo però che ho avvertito un sentimento di inquietudine nel sollevare questo tema di discussione, ma l’ho superato nel condividere il moto del Direttore di questo giornale, secondo cui occorra “raccontare tutto quel che si sa”. E so che la giustizia sociale è un valore con mete cui si tende in base ad un principio morale che abita nella coscienza individuale. Senza di essa si va incontro all’economicismo di cui sono maestri i consulenti fiscali, i direttori del personale al servizio delle imprese e del mercato, e le menti tecniche che stanno programmando l’industria 4.0 che annienterà il lavoro delle persone all’insegna della società delle macchine, futuro che non condivido. Ma per tornare al discorso auspico che la discussione prosegua, come fai tu caro Adria no fautore del pensiero indipendentista, in maniera motivata in merito all’interrogativo sollevato nel titolo del testo. Condivido l’idea di sovranità, ma resta sempre in piedi da chiarire lo strumento indispensabile per metterla in pratica in Sardegna. E cioè: Stato sardo o Nuovo Statuto per l’autogoverno? Mi gratifica quel “finalmente!” di Andrea Piana testimonianza di condivisione e di attesa del tema posto in discussione. Saluti e ischina ritza.
Con l’acume che ho imparato a riconoscere nei tuoi interventi, poni un priblema fondamentale, quello del contenitore e del contenuto. Se l’uno è importante per il nostro futuro, l’altro è assolutamente prioritario. Credo sia sempre il caso porsi prima di fronte alla questione del contenuto, cioè tutto ciò che può essere utile ed indispensabile per invertire la tendenza che vede questo tesoro deprezzarsi sempre più. Poi, ovvio, l’acqua che disseta, i frutti che nutrono, dovranno pur sempre essere posti all’interno di un contenitore che non ne disperda ricchezza e bellezza. Ma questo può essere forgiato a modello dei beni che dovrà cintenere.
Natzione Sarda o nuovo patto con il Governo centrale sono il forziere che dovrà custodire ed esaltare le gemme e i preziosi che sapremo ottenere da questa meravigliosa terra.
Un saluto.
L’ indipendenza non si chiede. Si esercita , nella misura in cui è’ possibile. Noi Sardi siamo bravi a piangere. Quanto a determinare il nostro destino in senso autonomistico, be’ , se la nostra Storia viene infarcita continuamente di ipocrite bugie per costruire un passato falso, non si va molto lontano.
Mi dole Meda narrere chi non semus istados capatzes fe faghere funtzionare s.’Autonomia e tando; laite podimus organizzare et faghere produire unu Istadu Sardu?
Ego penso chi podimus e dovimus faghere intendere sas nostras rajones Cun cussu chi já amus.
Pro concludere lassami narrere chi s’Europa est una occasione manna de isviluppu pro non narrere fe sa possibilidade de nos accurtziare a sa nostra isola gemella chi est sa Corsica chi s’istoria disgratziada at cheifidu essere donada a sa Frantza.