Spesso si sostiene che, per cambiare il destino della Sardegna, è necessaria una rivoluzione culturale. Questo è ancora più vero per ciò che riguarda l’autodeterminazione.
Ma la Sardegna in realtà è una post colonia singolare nella quale, a parte il continuum tra il mondo culturale e quello politico, abbiamo anche un fenomeno di auto limitazione di coloro che vorrebbero cambiare le cose.
Dunque, possiamo notare che esiste tutta una serie di uomini di cultura della classe dominante che si occupano di questioni vitali per l’autodeterminazione (lingua, indipendentismo, letteratura, nazione ect…) e, nella preoccupazione costante che lo svolgimento di queste tematiche si possa svincolare dal loro controllo, partecipano al dibattito, si propongono come opinionisti, scrivono libri, mettono veti o esaltano alcune specie di studi invece che altri.
Si presentano come favorevoli alla lingua, all’indipendentismo, alla poesia in sardo, alla nazione, alle tradizioni popolari, ma in realtà battezzano o scomunicano. Sono baroni che circuiscono i contadini. Volpi molto furbe.
Quelli che desiderano la rivoluzione culturale, volendo scalare il potere, anche in buona fede, li cercano per avere una sorta di legittimazione intellettuale.
Ma, parafrasando un proverbio sardo: l’agnello può aspettare il latte dalla volpe?
E’ un atteggiamento sicuramente pre politico, di egemonia personale e culturale, ma che ha un riflesso anche nelle cose politiche e di governo. Basti pensare che, oggi in Sardegna, siamo governati da una specie di senato accademico, selezionato, si dice, in base alle competenze, e dunque all’egemonia che queste hanno prodotto nella società.
Il nucleo di queste competenze è dunque il mondo accademico di Sardegna che, a parte le solite eccezioni, ha sempre ostacolato (con la produzione di argomenti e “discorso” culturale e politico contro) una rivoluzione culturale verso l’autodeterminazione. E non per nulla oggi, la politica autonomista in difficoltà, ha dato loro la delega a governare al suo posto.
Essendo servitù nascoste, queste lobby sono come dei poligoni culturali che hanno il compito di occupare “militarmente” con idee e “discorso” il campo sociale con l’intento di non lasciar fiorire nulla che porti al cambiamento e alla rivoluzione. E quando i temi tanto temuti, si impongono spontaneamente, allora cercano di egemonizzarli alla loro maniera, distraendo dal cammino, creando problemi intellettuali per spaventare gli insicuri, girando al largo dalle soluzioni, sbiadendo le idee più forti, annacquando il vino forte con la loro acquetta egemonica.
E purtroppo in una realtà arretrata come quella sarda sono efficaci, perché il ruolo che uno detiene, conta più delle competenze che vanta.
E allora vediamo uomini di cultura che parlano di nazione nella storia romana, che non disturba nessuno al giorno d’oggi. Vediamo fieri avversari di ogni causa di autodeterminazione che raccontano LORO alla gente chi erano gli eroi dell’indipendentismo.
Vediamo antropologi che fanno la festa a Sa Die de sa Sardigna festeggiandola. Vediamo gli indipendentisti di governo, che non parlano mai di lingua ufficiale, in linea con il pensiero orientalista, lodare studi filologici che costringono il sardo nel ruolo eterno di oggetto di osservazione archeologica mortuaria.
In genere non parlano mai in sardo questi baroni. Anzi, ne hanno terrore e schifo. Lo temono.
Ma si può cominciare questa rivoluzione culturale per l’autoderminazione cercando la legittimazione di questi esponenti della classe dominante che usano i temi “nazionalitari” per, allo stesso tempo, essere sempre loro i padroni e successivamente controllare il “popolo” affinché non tocchi e non metta in discussione i poligoni del potere centralista (che in realtà sono la fonte stessa della loro egemonia?).
Non sono i professori, o l’accademia, o i baroni universitari italianisti che possono legittimare il mondo che ha come obiettivo l’autodeterminazione. E’ una contraddizione in termini.
Sono il lavoro, la libertà delle idee, le competenze. E pazienza se c’è da pagare prezzi o se ci vuole più tempo. E pazienza se i professori sono contro invece di farti sentire la carezza del potere come si fa ai cagnolini mansueti che leccano sempre la mano.
Vero è, d’altro canto che in politica il realismo e il pragmatismo sono obbligatori. E che, avendo sempre l’establishment contro, si rischia di non quagliare. Allora, è bene non cadere nell’estremismo. La riflessione però va fatta e bisogna trovare una modalità produttiva per confrontarsi con loro, senza che siano considerati superiori e sempre ex cathedra.
Le volpi possono essere mascherate. E forse è allora, dopo che ti hanno criticato e attaccato, che ti possono rispettare.
In sintesi. La rivoluzione culturale per il cambiamento non la fanno i baroni codini che stanno bene e non vogliono nulla se non confermare che, qualunque cosa si faccia, loro devono esserne padroni.
Arrendendosi a questa sindrome di Stoccolma, forse si riempie la boria sociale di qualcuno, forse le carriere sono al sicuro, forse si vive più conformi al tempo presente e alle sue egemonie, ma di sicuro non si va verso l’autoderminazione.
Né si fa la rivoluzione culturale.
Fantastico articolo, non banale, sicuramente la base per altre idee.
Come si fa a fare la rivoluzione culturale indipendentista, se da tutto questo dialogo sui blog, social, convegni non emerge nulla fuori dalla nicchia degli indipendentisti?
La sfida è riuscire a sfondare il muro di gomma e far si che il problema diventi a tutti i sardi, ancora legati agli schemi dei partiti nazionali. Cioè comunicare e far discutere.
Uao. Un articolo che legge nel pensiero. Ho avuto modo di approfondire degli studi sulla Reale Società Agraria ed Economica della Sardegna nell’800, che fungeva da organo consultivo del governo sabaudo, e mi rendo oggi conto che tutta la propaganda verso un tipo di sistema che favoriva la chiusura delle terre, aboliva i gremi e di fatto, promuoveva una visione “piemontese” dello sviluppo non fossero la risposta a un sistema autarchico, povero, ricco di malattie endemiche e scarsamente coeso come il nostro. Non mi dilungo sul dopo… Il punto è che la rivoluzione culturale non esiste. La cultura è gia’ dentro un sistema, valore genuino e pregnante, e va riscoperta… Questo premere su una rivoluzione culturale promossa da professori che non hanno mai parlato, nella vita di tutti i giorni, il sardo.. Che conoscono solo il nome di Alagon e non sanno nemmeno che ci sono sardi che non si sono venduti e per questo sono morti, assieme a tutta la famiglia. È un mondo del rovescio… La sardita’ è nel cuore di chi ama questa terra.. Di chi ama questa terra arida di soddisfazioni economiche e che oggi non ci può vivere perché deve lavorare.
La rivoluzione parte dal basso, parte dalle insegnanti e dagli insegnanti di scuola primaria e scuola secondaria, di primo e secondo grado, che introducono la storia e la cultura sarda nei loro programmi.Tale rivoluzione si genera dalla costruzione lenta e dal riconoscimento di una propria cultura stratificata, sedimentata, che diviene base di un popolo, non accessoria ad esso. E’ in questa logica che si muovono progetti generosi come “La storia sarda nella scuola italiana” o processi similari in campo letterario o storico artistico. Le rivoluzioni culturali si fanno con la cultura e comunicando essa al di la dei salotti buoni, rendendo ciò che “alto” accessibile ai più, lavoro tipico di chi insegna a scuola, costruendo dal basso la dignità della cultura di un popolo, uscendo dal folcloristico o dalle rappresentazioni kitsch.