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Nella mia non breve esperienza da direttore del principale quotidiano sardo (almeno, a me è sembrata non breve, per quanto è stata intensa) mi è capitato di confrontarmi con interlocutori che sostenevano che le storie dei senza lavoro non le legge più quasi nessuno: “Tirano soltanto se l’epilogo è drammatico”.
Cioè se un uomo, la cui psiche frana sotto il peso della difficoltà del vivere quotidiano, decide di farla finita.
Il disagio è (sarebbe) invece diventato faccenda ordinaria. Notizia che rischia di essere archiviata o liquidata con poche righe. Non per scarsa sensibilità, ma perché nessuno la legge più.
In Sardegna non c’è più presidio, occupazione, manifestazione di piazza che riesca a scuotere le coscienze. Non c’è vertice, incontro o riunione che abbia più la pretesa di essere risolutivo. È tutto così maledettamente normale.
Anche la violenza della dialettica. Persino la puntuale negazione della speranza.
Quindici anni fa – da cronista – mi capitò di raccontare la desertificazione del polo industriale di Macomer e dei vicini insediamenti produttivi di Ottana-Bolotana.
Le aziende tessili e chimiche, artefici dell’effimero boom economico di quei territori, smobilitavano. Dopo aver incamerato cospicui finanziamenti statali e aver alimentato le prospettive di crescita e benessere, lasciavano nelle campagne – violentate da ciminiere, cemento, fumi e liquami mortiferi – disinganni e promesse tradite.
Per fare un esempio – descrivendo una realtà distante ma simile a quella del martoriato Sulcis – il fallimento del piano industriale e il peso che ha avuto nell’economia dell’Isola lo si può raccontare risalendo la catena del Marghine per poi scendere verso il mare e raggiungere le coste della Planargia.
Attraversando campagne che furono grassi pascoli, dominate da nuraghi che sfidano il tempo, la vista delle aziende di Tossilo e Suni – oggi vuote e cadenti – e dei caseifici diroccati ci offende.
È così che ci si può far tornare alla mente un discorso che – seppur utopistico – fa riflettere. Lo ha pronunciato l’ormai ex presidente dell’Uruguay José Pepe Muijca in occasione del G20 di Rio De Janeiro, nel giugno 2012 e lo abbiamo riportato nei giorni scorsi – integralmente – proprio in questo blog.
È controcorrente rispetto alle logiche del sistema fondato sull’economia di mercato, lo nega e lo demolisce dalle fondamenta partendo da un presupposto: «Veniamo alla luce per essere felici. Perché la vita é corta e se ne va via rapidamente. Nessun bene vale come la vita, questo é elementare».
E, ancora: «Questi sono problemi di carattere politico, che ci stanno indicando che é ora di cominciare a lottare per un’altra cultura. Non si tratta di immaginarci il ritorno all’epoca dell’uomo delle caverne, né di avere un monumento all’arretratezza. Peró non possiamo continuare, indefinitamente, governati dal mercato, dobbiamo cominciare a governare il mercato».
Chi lo ha letto integralmente non potrà che riflettere.
Non esistono soluzioni facili e la politica – ancor più in questo momento di forte instabilità – non sembra proporne di più chiare. La forze delle idee e il risveglio delle coscienze possono essere il principio motore dello smantellamento di un sistema che, regalando ben più nocive illusioni, perpetua se stesso, costringe all’immobilismo e usa violenza contro la natura dell’uomo.
Sentiamo ancora parlare di modelli vecchi, che la vecchia politica – tutta rituali e piroette, tecnicismi e moralità a volte solo ostentata – cerca di riproporre quando invece ne servirebbero di nuovi, impostati sulla valorizzazione e non sullo sfruttamento del territorio.
Non sulla dipendenza della povera gente dal potere politico, ma sullo sviluppo che nasca dal basso, dalle attitudini tradizionali delle nostre popolazioni, troppo spesso non assecondate.
Servirebbero ricette coraggiose, in grado di sparigliare un gioco altrimenti destinato ad alimentare un sistema poco virtuoso e incapace di produce ricchezza diffusa.
Non è che il teatrino degli annunci, con la continuità amministrativa (e, in alcuni casi, politica), con l’iperattivismo di maniera che si cambiano davvero le cose.
Anzi, si modificano solo i nomi dei gestori del sistema, si sposta un po’ la geografia del potere di qualche ras locale.
Tutto cambia, per restare uguale.
Ed è un peccato, perché le premesse, le speranze e le aspettative non erano queste.
Da un verdetto dei servizi segretti USA >Popolo tenace ma INCAPACE di unirsi per obiettivi comuni< La Sardegna è una grande portaerei al centro del mar mediterraneo. Non ha il fastidioso problema della gente è una sorta di ponte libero, ci sono migliaia di ettari di terra libera quasi spopolati aquistabili con poco prezzo. La Sardegna è abitata da uomini tenaci ma come risaputo incapaci di costituire movimenti collettivi che abbiano obiettivi comuni. L'isola è povera per questo facilmente comprabile con qualche centinaio di posti di lavoro dentro le basi militari da offrire come mangime a qualche confacente politico Nazionale e Regionale. Verdetto che è la conseguenza di un disegno studiato (se vuoi dominare un popolo portalo alla fame) messo in pratica dal dopo guerra con le bonifiche ERLAAS finanziata dal Piano Marshall, che altro non erano la distribuzione del famoso mangime distribuito in buste paga. Oggi quel piano continua il suo percorso con la connivenza dei Politicanti ASCARISARDI e sindacalisti della triade italiana facilmente comprabili per qualche centinaio di posti di lavoro nelle fabbriche incuinanti e dentro le basi e poligoni militari INTERFORZE USA. Dal 1945 si modificano solo i nomi dei gestori del sistema, si sposta un po’ la geografia del potere di qualche ras locale ma il la distribuzione del MANGIME viene dato e adeguandolo perchè tutto cambia, per restare uguale.
Io voglio andare controcorrente…secondo me il problema in Sardegna non è stata la presenza di industrie a Porto Torres, Ottana, Sarroch, Macchiareddu…il problema è che tali industrie non rispettano le norme di sicurezza e di rispetto dell’ambiente..perchè di per se piantare un’industria pesante non è un reato, lo è farlo senza il rispetto delle norme sulla sicurezza ambientale e sul lavoro…su questo bisognerebbe battersi. Senza il petrolchimico a Porto Torres quanti altri sardi sarebbero dovuti emigrare?io vorrei che le industrie arrivassero, perchè non penso che tutta l’economia sarda si possa basare sull’agropastorizia , e ora anche su schiere di centri commerciali con negozi che durano pochissimi anni e si rivolgono a consumatori senza potere d’acquisto??? Non bisogna dire no a prescindere all’industria pesante, solo ai suoi errori…
Deve cambiare il vento.
Per forza deve cambiare se non vogliamo diventare la grande tomba del mediterraneo.
E la morte peggiore e’ quella di non volere prendere posizione attiva lasciandoci fare addosso tutto quanto questo tipo di potere vuole.
Io non voglio credere che i sardi non siano in grado di unirsi per il raggiungimento di un obiettivo comune