Riordinando gli appunti e i documenti nel mio corposo archivio “Ambiente” ho ritrovato una puntuale nota inviatami nel novembre del 2013 dall’amico Vincenzo Migaleddu.
La fece precedere da una telefonata carica di amarezza, in cui si disse colpito ma non stupito dall’attacco che un sindacato territoriale gli aveva mosso all’interno del discorso con cui le organizzazioni dei lavoratori dicevano Sì alla centrale a carbone di Clivati in quel di Ottana.
Rileggendola, ci ho trovato un’eccezionale attinenza a quel che accade in queste ore attorno al caso Fluorsid.
Eccola quanto Vincenzo aveva scritto:
“Nel mondo scientifico “business bias” indica l’interferenza sui risultati di un ricerca legata a un conflitto di interessi che lega un ricercatore a una industria o a un centro di potere. Le riviste serie, oltre alla richiesta di una dichiarazione di assenza di confitti di interesse, affidano a dei revisori sconosciuti il giudizio su una ricerca allo scopo di verificare la bontà del metodo, l’attendibilità dei risultai e ovviamente l’assenza di conflitti.
Nel mondo del giornalismo oggi il problema “business bias” è di difficile soluzione; il legame che lega il giornalista a una industria o a un centro di potere (non sempre solo di tipo editoriale) vede spesso chi scrive in una posizione di subalternità manifesta; non basta più solo l’onestà intellettuale per assicurare una libera informazione.
Mi informano che un quotidiano locale mi attribuisce la divulgazione di dati derivati da uno studio (SOMO) commissionato da Greenpeace sulle morti premature da combustione di carbone.
Invero, ho evitato accuratamente, nella mia relazione orale tenuta a Ottana e in particolare nella relazione scritta consegnata al Comune, ogni riferimenti a quello studio.
Nella letteratura scientifica e nelle linee guida sulla qualità dell’aria dell’Organizzazione Mondiale della Sanità esistono dati più che consolidati sui danni alla salute arrecati dalle combustioni dei fossili e in particolare del carbone su cui basarsi.
La relazione scritta da me prodotta, invece, esamina le criticità procedurali, progettuali, ambientali, sanitarie ed anche occupazionali dell’ introduzione della combustione del carbone, viste dal punto di vista degli interessi collettivi delle comunità della media valle del Tirso non coincidenti con quelle del padronato e, ahimè, con quella di alcuni sindacalisti nella duplice veste anche di consulenti aziendali.
Ritorniamo al giornalismo locale e al “business bias” per ricordare come il centro di potere di riferimento non solo editoriale ha un interesse non certo marginale nella produzione energetica da combustione di carbone, per esempio, in Liguria.
La polemica sulla ricerca SOMO di Greenpeace a opera di un funzionario del Ministero della Sanità, del resto, ha spazio sulle pagine dei giornali e non in un ambito scientifico accreditato. Quindi perché non riproporla in colonia magari con la complicità di qualche amministratore locale professionista in ambiguità?
E’ triste che ciò avvenga in momento cosi difficile per l’Isola, sconvolta da eventi non certo casuali, ma ben correlabili ai cambiamenti climatici dovuti all’emissione di gas serra per l’uso ossessivo di combustibili fossili; quando, invece, il senso solidaristico di comunità dovrebbe farci riflettere sugli interessi collettivi nella gestione dell’ambiente e del territorio, già fortemente insidiato per assecondare gli interessi di pochi”.
Caro Direttore, come tutte le persone e organizzazioni i sindacati curano i loro interessi. E quali sono gli interessi dei sindacati? Essi sono inevitabilmente legati pur sempre ai soldi di cui tutti (persone e organizzazioni) hanno bisogno per vivere e svilupparsi. E quindi tra le principali entrate di queste organizzazioni, i contributi sindacali da dove provengono e con quali azioni si tutelano o si incrementano?
Ed inoltre, se la singola persona che occupa un ruolo più o meno importante nell’organizzazione sindacale, utilizza questo ruolo per assecondare i propri desideri personali di soldi e potere (secondo il peggior costume italico particolarmente diffuso ovunque e a tutti i livelli), da quale parte starà questa persona? Dalla parte di chi ha i soldi o altri benefici (inclusa l’assunzione del figlio o di altro congiunto) che cura un interesse particolare (ad esempio un’azienda o come spesso accade un prenditore) o dalla parte di chi difende un interesse pubblico o diffuso (ad esempio un associazione ecologista)?
L’unica risposta a situazioni così complesse (industria inquinante, poligoni militari, centrali o qualsiasi opera con significativi impatti) a mio avviso rimane sempre e solo una: fare scegliere direttamente alle comunità impattate e interessate cioé quelle che subiscono gli effetti sia positivi (ad esempio posti di lavoro o contratti promessi) che negativi (ad esempio malattie, morte, dipendenza e eradicazione di altre imprese attuali o potenziali, e via dicendo).
Perché si ha paura di dare la parola e il potere di scelta direttamente alle comunità interessate?
Saluti