Chiusa una porta, si apre un portone.
Inizialmente, pensavo che, dietro questo detto, non vi fosse altro che la volontà di tranquillizzare falsamente colui che, per motivazioni varie, avesse perso una occasione, un sentimento od un lavoro.

Al contrario, però, col trascorrere degli anni mi sono definitivamente convinto che questo proverbio nasconda, come tanti altri, una infinita saggezza.
Capita infatti sovente che, delusi e scoraggiati per qualche fallimento, si trovi il coraggio di provare nuove vie, quasi che le risorse mentali e la rabbia per l’occasione svanita riescano a convogliarsi ed annullare tutte le paure che, molto spesso irrazionalmente, ci hanno fino a quel momento frenato, facendoci preferire il conosciuto, anche se negativo, alle nuove opportunità.

Alla fine, è dunque la paura il principale nemico da sconfiggere e, a tal proposito, riflettendo sui mali della Sardegna, ho trovato ampie similitudini con questa considerazione.

Non è certo una novità che la nostra isola versi in una gravissima crisi economica, sociale e culturale, fatta di disgregamento delle attività industriali alla pari del proprio patrimonio culturale, desertificazione delle terre, spopolamento dei paesi interni e, soprattutto, convincimento collettivo della impossibilità di invertire l’attuale progressivo declino e conseguente perdita di ogni speranza per un migliore futuro.

E’ vero che questa crisi parte da lontano ed è figlia soprattutto di una politica del passato scellerata e poco lungimirante.

Ciò non toglie, però, che la classe politica degli ultimi vent’anni, quando ormai certi concetti di sviluppo erano ormai clamorosamente falliti, nulla abbia fatto per provare ad invertire la tendenza.

Al contrario, chi ha gestito, con sistematica alternanza, le politiche governative sarde, si è consapevolmente, e vergognosamente, avvantaggiato della situazione di crisi, creando un assistenzialismo cieco e generalizzato, finalizzato non già a proteggere, giustamente, i più deboli quanto invece a creare dipendenza, e clientela, dalle mancette che, di volta, in volta, venivano erogate a questo o quel settore.

Nessuno, oggi, può onestamente sostenere che abbia ancora un senso perseguire i finti modelli di sviluppo che bloccano l’intera isola e che, lungi dal produrre veramente qualcosa, ci inchiodano in una condizione di diffusa povertà e disperazione.

Guardiamo da vicino le industrie, e taccio sulle miniere, e vediamo solo finti piani di rinascita, famigerati, quando non inesistenti, grossi acquirenti stranieri, usuali recriminazioni sui costi di produzione che servono solo a nascondere indici produttivi di segno negativo.

Ci giriamo verso la Pubblica Amministrazione o la Sanità e, a fronte di tanti volenterosi, riscontriamo una voragine di sprechi e assunzioni clientelari inversamente proporzionali alla qualità dei servizi ed alla produttività.

Per l’agricoltura, settore nevralgico isolano, abbiamo assistito per decenni alla somministrazione di una droga di Stato e comunitaria, fatta di incentivi economici per non produrre e per creare i presupposti per la attuale inoccupazione e disperazione sociale.

Potrei davvero continuare ma credo che, al di là delle dichiarazioni di prammatica delle contingenti Giunte Regionali, a volte imbarazzanti per il loro stridore con la realtà, nessun sardo possa illudersi di poter continuare su questa falsariga.

E, allora, escluse le persone interessate a conservare, per calcoli politici, questo fallimentare status quo, cosa blocca tutti noi dall’aprirci a nuove strade, nuove prospettive di sviluppo, nuove strategie prima di tutto culturali e sociali e infine politiche?

Cosa avremmo da perdere nel destinare al macero le parole, le finte inaugurazioni ed i soldi (sempre gli stessi), promessi e mai concretamente assegnati?
La paura. Ci blocca solo ed esclusivamente la paura, il timore appunto di affrontare il mare inesplorato dell’incerto chiudendo al contempo la porta del certo che, anche se misero e maleodorante, inconsciamente ci rassicura e ci frena.

Ciò non significa darsi in pasto ad avventure campate per aria, a pifferai magici o, men che meno, affidarsi agli accurati restyling di vecchi nomi, che stanno già programmando con quale foglia di fico riproporsi all’elettorato.

Se si vuole provare a creare un progetto di sviluppo Sardo, i cui tempi di realizzazione saranno sicuramente – inutile negarlo – lunghi e per certi versi probabilmente dolorosi, si devono in primo luogo abbandonare le logiche spartitorie e partitiche che ci hanno portato al collasso economico e sociale.

Nel momento in cui riusciremo a prendere tutti consapevolezza che i gruppi politici che hanno governato la Sardegna hanno contribuito, in egual misura, al fallimento in cui versiamo, non avrà (finalmente) più senso ragionare su chi vince o chi perde, su chi riuscirà a sistemare adesso le sue pedine inefficienti e chi dovrà invece aspettare il prossimo turno o la prossima cospirazione di palazzo per un disinvolto cambio di casacca.

La Sardegna ha bisogno di uno sforzo comune di tutti coloro interessati a cambiare prospettiva e dirottare le rispettive energie e competenze verso altre vie razionalmente perseguibili di sviluppo.

Dal basso della mia visuale di elettore, riesco ad intravedere, anche tra le forze politiche più rappresentative, individualità brillanti, quasi sempre schiacciate però dai dominanti temi affaristici di aeroporti, affari, nomine in municipalizzate e società regionali decotte da usare come bancomat elettorali.

Vedo anche rappresentanze politiche meno ampie ma più dedite ai giusti rapporti ed attenzioni verso il territorio, alla pari dei sindaci perennemente in trincea.

Mi piacerebbe davvero si riuscissero a focalizzare le attenzioni collettive su quattro o cinque temi fondamentali, volti alla rigenerazione dei tessuti urbani, agricoli e culturali, soprattutto interni, e non più legati ad una visione solo Cagliari o Sassaricentrica a seconda della lobby vincente.

Proviamo a ragionare insieme su di una politica seria di innovazione nelle tecnologie, una logistica dei trasporti che esca dalla morsa, e dalle prebende individuali, dei monopolisti, incentiviamo le attività che portino uno sviluppo sostenibile.

Insieme. Coi campanili, politici e territoriali, si perde; solo manifestando amore per la Sardegna sempre e comunque, e non solo come imbellettamento elettorale, si riuscirà a creare qualcosa di diverso e di migliore, un programma di lavoro concreto che sia proficuamente realizzabile.

E, per favore, chiudiamo definitivamente la porta del declino in faccia a chi ne è principale responsabile e proviamo ad aprire questo benedetto portone.