Tentare di delegittimare l’attuale progetto di riforma della Costituzione, evidenziandone le somiglianze con il testo approvato dal II Governo Berlusconi nel 2005, è semplicemente scorretto.

Alcuni, fra coloro che dieci anni fa votarono No al referendum voluto dal centro destra si staranno chiedendo per quale motivo votare Sì al referendum confermativo di novembre visto che i due testi, entrambi di iniziativa governativa, sono accomunati dal tentativo superare il bicameralismo perfetto e ridurre il numero dei parlamentari.

Si legge da più parti che la modifica della seconda parte della Costituzione incrinerebbe i valori fondanti la nostra democrazia, senza tenere in considerazione il percorso storico e la pluralità di voci che in questi anni hanno arricchito il dibattito convergendo, sostanzialmente, sui capisaldi di questa proposta.

È necessario sgomberare il campo dalle storture che ci impediscono di affrontare l’argomento con oggettività, e tenere in considerazione le differenze che intercorrono tra la riforma del 2006 e quella del 2016.

In primo luogo, bisognerebbe ricordare che, a differenza della riforma Berlusconi, l’iter di approvazione del ddl Boschi ha coinvolto, in prima lettura, un’ampia maggioranza, della quale faceva parte anche Forza Italia, salvo poi essersi schierata contro la riforma nelle successive votazioni.

Senza alcuna sostanziale modifica al testo ma in polemica con il governo a seguito dell’elezione del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, buona parte del centro destra ha difeso il cambio di posizione ergendosi a difensore della carta costituzionale, contro la “deriva autoritaria” del governo Renzi.

Che le modalità di approvazione dell’attuale progetto di riforma siano state pienamente legittime non vi sono dubbi. Allo stesso tempo, la sensibilità della materia genera inevitabilmente considerazioni di carattere politico, le stesse che, per certi versi, hanno bloccato i progetti di revisione proposti sino ad oggi.

Non è da sottovalutare, inoltre, che il testo del 2005/2006, all’art.28 (art.95 del testo vigente), sostituiva alla figura del Presidente del Consiglio quella del Primo ministro aprendo così la strada ad una profonda revisione della forma di governo.

Come disposto dal nuovo art.92, la candidatura alla carica di Primo ministro sarebbe avvenuta tramite collegamento con le liste di candidati all’elezione della Camera dei Deputati e la legge elettorale avrebbe favorito la formazione di una maggioranza collegata al premier. Il primo ministro sarebbe stato l’unico destinatario della fiducia parlamentare, avrebbe avuto potere di nomina e revoca dei ministri, sarebbe stato blindato da un complicato meccanismo per evitare i cosiddetti ribaltoni, avrebbe potuto sciogliere di sua iniziativa la camera dei deputati.

Nel 1997 fu lo stesso Massimo D’Alema, allora Presidente della Commissione bicamerale e oggi fermo detrattore della riforma Renzi, a proporre il “premierato forte”. La scelta diretta da parte degli elettori del Presidente del Consiglio, rappresentava a parer suo «una garanzia democratica da preservare anche attraverso un meccanismo sanzionatorio dei ribaltoni».

L’unica norma che nella riforma del 2016 rafforza la posizione del Governo – non del Presidente del Consiglio – è il voto a data certa su alcune leggi di particolare importanza per l’attuazione del suo programma, ma al tempo stesso la riforma pone nuovi vincoli all’uso da parte del governo della decretazione d’urgenza. Invece, i poteri del Presidente del Consiglio non vengono in alcun modo rafforzati.

Un ulteriore punto di discontinuità è rappresentato dalla riforma del Titolo V. Il testo del 2006, conosciuto anche come devolution, rafforzava i poteri delle Regioni, che acquisivano potestà legislativa esclusiva in materia di assistenza e organizzazione sanitaria, organizzazione scolastica e polizia amministrativa locale.

Allo scopo di superare i contenziosi Stato-Regione, il nuovo art. 117 elimina le materie concorrenti e separa nettamente gli ambiti di competenza statale e regionale, disponendo il ritorno di un cospicuo numero di materie alla potestà legislativa dello Stato.

Infine, per quanto riguarda la composizione della Corte Costituzionale, è bene ricordare che l’art.51 della riforma Berlusconi (art.135 del testo vigente) riduceva il numero di giudici di nomina Presidenziale e incrementava le nomine di natura parlamentare.

La riforma dei 2016 non sottrae poteri al Presidente della Repubblica, che è chiamato a nominare 5 giudici della Corte come previsto dal testo vigente. La Camera e il Senato possono nominare 3 e 2 giudici, mentre i rimanenti 5 vengono indicati dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrative, mantenendo così le stesse proporzioni dal testo del 1948.

Il dibattito vola molto più in alto del presente della politica, ha radici lontane e la potenzialità di creare ripercussioni sul futuro del nostro Paese. Qualsiasi sia la scelta che faremo, facciamo in modo che sia la più lungimirante.

*pezzo tratto da www.idemlog.org