Non tutto ciò che è nuovo è per forza buono e non tutto ciò che è vecchio è da buttare a mare. Può sembrare una banalità ma è meglio chiarirlo prima di proseguire nel ragionamento.
Perché questo è un articolo che intende sposare e difendere le ragioni dell’innovazione, del riformismo, del cambiamento, cercando di farle prevalere su quelle della conservazione e dell’immobilismo. E vuol farlo rovesciando l’assunto iniziale: se tutto il nuovo non è per forza buono, va da sé che non è neppure tutto cattivo.
Ognuno di noi, nel suo piccolissimo, è un portatore sano di innovazioni. E innovando (letteralmente: rendendo nuovo, mutando lo stato delle cose) partecipa al generale progresso della società. E il progresso (letteralmente: il processo di avanzamento delle condizioni umane, dunque non necessariamente un giudizio di merito, sul meglio o sul peggio) muta le vite nostre e degli altri, le convenzioni, i rapporti sociali, i prodotti che inventiamo, produciamo, consumiamo, smaltiamo o ricicliamo.
Innovare è un qualcosa di insito nella natura dell’essere umano. Dunque, innoviamo perché siamo. Eppure la storia (persino quella contemporanea) ci insegna che tutti i riformatori e i portatori di novità sono stati (e sono) guardati con sospetto, circondati da sorrisini ironici e invidie. Perché la conservazione (letteralmente: serbare, custodire, mantenere) ci illude di poter perpetuare una situazione ormai collaudata, assimilata e dunque comoda.
Spesso si conserva lo status quo per pura pigrizia, altre volte per assenza di lungimiranza o nella convinzione di dover difendere una posizione di privilegio. Nel mondo di oggi – globalizzato, competitivo, veloce – un’azienda che non innova è condannata dal mercato alla sconfitta. Solo che se fino a dieci anni fa perdere significava indebolirsi, oggi è sinonimo di morte.
Il sistema politico e istituzionale non sfugge alla stessa regola. L’Italia del 2016 – e pure la Sardegna – è la fotografia di quanto l’eterna battaglia fra conservatori e riformatori abbia lasciato sul campo milioni di morti e feriti. Chi? Imprenditori, studenti, lavoratori, diversamente abili, donne, giovani, cittadini inermi.
Eppure chi prova a uscire da vecchi schemi, dal seminato della perpetrazione di riti antichi e sempiterne liturgie rischia, nella migliore delle ipotesi, di essere additato come un parvenue o uno che punta, nella migliore delle ipotesi, ad aggiungere il suo posto a una tavola già lautamente imbandita.
Eppure c’è una categoria peggiore di quella degli immobilisti: quella dei falsi innovatori e dei venditori di fumo e di parole. Se ci pensate, sono proprio loro – a ogni latitudine – a opporsi alle novità, agli esperimenti, agli schemi originali.
La battaglia dei nostri giorni è proprio questa: contrapporre l’apertura mentale e la novità alla chiusura e al vecchio che ben conosciamo.