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No istamus mègius cunforma a un’annu a como. Ma nemmancu peus. Est a su matessi tempus su dramma e sa fortza de sa terra nostra: semus firmos, a prus de isulados. Ma si non megioramus cun s’immobilidade, nessi evitamus dannos peus. A su mancu finas a cando non detzidimus su caminu de leare.
Su fine de s’annu nos at regaladu tzertesas noas a propòsitu de sa tzentralidade de sa chistione ètica e morale in sos issèberos polìticos. Ca nos est craru chi non bastat prus cun pònnere làcanas sacrosantas intre su lìtzitu e s’illìtzitu. E chi si sa finalidade polìtica (pro nàrrere, sa de dare traballu – o sustentu – a chie su traballu no lu tenet) giustìficat ogni mèdiu, no est pleonàsticu ammentare chi sos mèdios devent semper e cando èssere legales e trasparentes.
Unu propòsitu bonu pro s’annu chi est intrende diat èssere su de s’impignare a non si pònnere a in segus de iscudos umanos sena salàriu, a s’ispissu manigiados a manera esclusiva pro persighire su poderiu, cun sa finalidade ùnica de l’esertzitare e de sighire fitianu.
Dae su momentu chi si persighit un’interessamentu de custa genia s’abbandonat su fàghere polìtica in sentidu positivu, ponende a in antis sos interessos pròpios a sos de sa colletividade. E si faghet unu dannu incalculàbile a su sistema econòmicu e sotziale in sa totalidade sua.
Non chirchemus iscusas dèbiles. A s’ispissu fintzas nois tzitadinos semus còmplitzes: pedire unu praghere a unu polìticu amigu, leare sa tessera de unu partidu pro megiorare sa situatzione personale e “oliare” sos tzentros de poderiu pro fàghere bàlere sos deretos pròpios – tropu a s’ispissu fatos passare comente cuntzessiones – est una manera pro contribuire a istitutzionalizare su malacostumadu e su malu guvernu.
In s’antiga Roma, pàtria màssima de sa corrutzione. a testimonia chi s’istòria si repitit e chi podet èssere un’esertzìtziu de retòrica pura su de pensare de la pòdere cambiare cun una prèiga o, mègius, cun s’esempru – aiant istabilidu tres printzìpios chi su personale polìticu deviat sighire: non fàghere dannu a sos àteros, dare a cada unu su suo, campare cun onestade.
Tres cosigheddas, dae ue podimus torrare a mòvere pro afrontare s’annu nou de un’àtera manera. Si nono, comente naraiant giajos nostros, “pro èssere peus, mègius gasi”.
peus de comente este postu su populu Italianu,no esistiti nudda, e nudda son fachende, custos omineddos de su governu ( chena cussenzia ). Nudda si movete si nois sichimus a dromire.. Unu dizzu narata… Chie dromiti non piscata.||
Ma chi lo dovrebbe compiere questo primo passo? Se l’immobilismo, ammorbando l’aria perché trasforma quella fresca in aria stantia, è il rifugio del vile, il movimentismo alla Pili è sciatto dinamismo che introduce nell’area del governo dell’ignoranza. Dietro quale vessillo ci si muove per evitare di camminare ciascuno per la propria strada che ci condurrebbe a compiere il periplo dell’isola per ritrovarci tutti al punto di partenza? Dietro il vessillo dell’irredentismo sardocentrico? Déjà vu and out of the times (un già visto fuori dai tempi). Un già visto perché l’era del vento sardista che spirava teso e gonfiava le vele del… l’illusione disillusa è roba di qualche decennio fa. Ci si scotta con l’acqua calda, si teme anche quella fredda. Poche balle, il sardismo è una scusa per stazionare fra le idee del socialismo e quelle del liberismo nelle loro varie, variegate, multiformi, policromatiche e polifoniche declinazioni. E’, come avrebbero raccontato alcuni, alcuni millenni fa (non certo oggi), un locus ameno. Fuori dai tempi perché i ponti hanno visto scorrere già troppa acqua. Le tenaglie dell’economia globale e la possibilità di spostare a piacimento e con estrema velocità le aree di interesse economico, eufemismo per evitare di scrivere la vetusta marxiana parola ‘sfruttamento’, rendono volatile ed estremamente aleatoria qualsiasi velleità di costituirsi nazione a sé, perché troppo esposta alle mareggiate provenienti dai quadranti orientali. Lasciamo perdere. Qualcuno è forse convinto che la Brexit abbia davvero affrancato i britannici dal dover sottostare, mi auguro non soggiacere, alle ferree regole esoteriche dell’economia di un mercato globale, dove neppure si sa più come e dove si forma la domanda di beni, perché indotta surrettiziamente, neppure troppo, da un mercato drogato?
Cerchiamo strade alternative anche a noi stessi
Vittorio Sechi
Salve Vittorio
non concordo con quanto scrive. La (sia pur minima) speranza di inversione del penoso trend (di peggioramento delle condizioni economiche e quindi sociali) che da sempre caratterizza la Sardegna risiede in un evento (vero e proprio shock) come sarebbe appunto solo l’indipendenza della nostra nazione (rispetto ad un paese come l’Italia destinato molto probabilmente al fallimento anche nel breve periodo).
Ci sono esempi concreti di nazioni anche più piccole, che specializzandosi in ciò che sanno fare meglio degli altri ce l’HANNO FATTA. La risposta è quindi nella specializzazione in ciò che sappiamo fare meglio degli altri e il veloce superamento di modelli industriali del tutto estranei a noi e che hanno arricchito le regioni del nord. Invito davvero tutti a ragionare sulla velocità con cui le tante risorse (mangiate dai politici, sindacati e prenditori) iniettate nel sistema economico sardo in iniziative del tutto estranee a noi, SONO RIMBALZATE verso le regioni del nord, lasciando qui nella stragrande maggioranza dei casi e delle proporzioni gli effetti negativi.
Solo dopo che inizieremo a tappare i buchi della pentola, potremo apprezzare gli effetti di investimenti pubblici che comunque dovranno concentrarsi in infrastrutture, cultura imprenditoriale, eliminazione burocrazia, eliminazione o fortissima riduzione delle tasse. La nostra isola attrarrebbe vere imprese e veri investimenti privati creando nuova ricchezza e nuove iniziative.
Saluti e buon anno….sperando presto nel nostro risveglio
Buongiorno a te!
Capisco cosa intendi dire. Purtroppo la nostra vera ed atavica specializzazione si riduce alla pastorizia e all’industria di trasformazione dei prodotti caseari che ci gira intorno (sempre e solo quando pastori e caseifici riescono a trovare un punto di equilibrio sul prezzo del latte), che parrebbe proprio inscritta nel nostro DNA, divenendo una nostra propensione genetica. Per l’agroalimentare abbiamo ben pochi spazi adatti ad una produzione di eccellenza, e non siamo educati alla coltura intensiva, per non parlare del problema idrico, che certo non aiuta uno sviluppo tale da rendere del tutto indipendente la regione dall’approvvigionamento esterno; men che meno, in prospettiva, potrebbe rappresentare il volano su cui far perno per la creazione di ricchezza in misura sufficiente da renderci economicamente indipendenti. L’artigianato, seppur affascinante e di qualità, non apre le porte ad un adeguato sviluppo commerciale, ma si riduce più che altro ad un settore di nicchia, e non è ipotizzabile un suo incremento in misura tale da poter lasciar trasparire grandi possibilità di drenare ricchezza. La grande industria la conosciamo bene, non fa per noi, anche per un evidente problema d’isolamento geografico e d’inquinamento. Ci resterebbe il turismo, settore in cui ci siamo affacciati relativamente da poco tempo, con non poche difficoltà e molte contraddizioni.
Questo per quanto attiene alle risorse naturali ed alla loro produzione e trasformazione. Se escludi il turismo, che si sostenta quasi autonomamente in virtù delle incredibili bellezze che Madre Natura ci ha donato, le altre potenzialità di sviluppo sono rappresentate da attività a basso valore aggiunto, che non possono essere considerate il fondamento di un’economia florida, ma presumibilmente solo di sussistenza.
Al di là delle risorse naturali su cui basare l’economia di una ipotetica Nazione Sarda, rimane il terziario, che però sconta il prezzo di una popolazione numericamente contenuta e che si avvia con sempre maggior lena all’invecchiamento, e l’enorme handicap rappresentato dall’insularità che fa lievitare i costi delle commesse. La Sardegna, i vari governi succedutisi nel corso dei decenni, compresi quelli a guida sardista, non sono mai riusciti ad esigere l’istituzione di zone franche che potrebbero quantomeno compensare il fardello della levitazione dei costi, e, al contempo, attrarre investimenti esterni (sani e puliti, stavolta), che sarebbero la vera manna che l’isola attende da secoli. In ogni caso, i servizi interni sarebbero da reinventare, le comunicazioni da ricostruire e la mentalità da formare… un’impresa titanica, votata al fallimento, temo… troppi appetiti.
Tantissimi auguri per il nuovo anno
Magari è già stato o visiterà in futuro (per fare un esempio) l’Irlanda e si chiederà come ha fatto una nazione così povera e spopolata, con un’economia allora in condizioni penose, risorse naturali certamente non eccezionali e che ha conosciuto davvero la grande fame, oltre che la subalternità rispetto ad un paese più forte (che la assisteva tenendola nella condizione di povertà), ad essere oggi una nazione ricca e destinata (proprio grazie alla BREXIT) a crescere ulteriormente e notevolmente per mezzo degli investimenti dall’esterno (quelli sani e puliti come giustamente scrive lei).
Ma guardiamo avanti (sarà molto difficile concordo) e prendiamo atto che la rivoluzione digitale è oggi in corso (la Sardegna ne è stata protagonista e mantiene ancora delle competenze incredibili) e offre tantissime opportunità a chi è geograficamente isolato come noi. Certo non risolve tutti i problemi dell’insularità, ma ci apre al mondo….e questo per un’isola è davvero una cosa straoridinariamente nuova, importante e foriera di (prima impossibili) opportunità.
Mi affido alla memoria, potrei dunque prendere un abbaglio. Non conosco bene la situazione dell’Irlanda, ma se non ricordo male la risposta è racchiusa in un’unica leva: sistema fiscale. Uno dei più vantaggiosi d’Europa, che richiama enormi capitali e relativi nvestimenti. Per cui, lì il settore terziario è trainante (almeno così mi pare di ricordare). Rende florido e vivace il sistema bancario, che finanzia, prioritariamente, le esigenze endogene, drenando così enormi ricchezze.
Per questo affermo che solo un sistema solidaristico che finanzi le esigenze pubbliche dei servizi, affiancato da franchigie erariali in alcune aree dell’isola, potrebbe invertire la tendenza che vede la Sardegna sempre più in affanno. Ma per far ciò servirebbero uomini veri, programmi sensati e ragionevoli, comunicazioni dignitose, e tante idee da tradurre in fatti.
P.S.: non credo che tutto sia perso… Nazione a sé stante, integrata nell’Italia o facente parte di un’Europa di cittadini e non di finanza, la Sardegna può avere un suo futuro… Sta a noi, solo a noi, dipingerlo nell’orizzonte del tempo.
Un saluto
Nessun abbaglio e complimenti per l’efficace sintesi (forse anche l’eliminazione della inutile burocrazia è stata di pari importanza).
Lei è bravissimo e sicuramente è uno di quelli che potranno aiutare il Direttore in questa impresa (assai ardua) su cui è bellissimo leggere che una qualche speranza (per definizione l’ultima a morire) in fondo nel suo cuore c’è ancora!
Di nuovo carissimi auguri e saluti