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C’è poco da illudersi. L’Occidente, eccetto poche eccezioni, sta svoltando a destra. L’anno appena iniziato vedrà elezioni in Francia, Olanda e Germania.
Nelle prime due la possibilità che partiti di destra, definiti genericamente come populisti, possano andare al governo è molto probabile.
In Germania la quasi sicura vittoria della signora Merkel potrà essere condizionata dai movimenti di destra che ottengono consensi progressivi. È possibile che le svolte avvenute in Polonia e Ungheria si possano ripetere nel resto dell’Unione Europea.
Crisi economica, crisi sull’accoglienza dei migranti, il terrorismo jihadista, stanno producendo società impaurite e rancorose che per difendere il poco welfare rimasto si aggrappano a chi cavalca la protesta e che difficilmente risolverà il declino dei ceti popolari e delle classi medie impoverite.
Il desiderio di uomo forte, caratterizzato da piglio decisionista affascina sempre di più. Un desiderio di fascismo si impadronisce dell’immaginario degli europei.
Tutti questi movimenti sono accumunati dalla categoria che la destra francese ha sintetizzato in destra dei valori e sinistra del lavoro. Ovvero: identità, intesa come salvaguardia dei caratteri distintivi di un popolo, spesso con la convinzione che Zygmunt Bauman ha definito retro utopia, considerare il passato come luogo mitico e sicuro, preferibile in ogni caso al presente incerto.
Un si stava meglio quando si stava peggio come concezione del mondo e approdo della propria esistenza. Sovranismo come rifiuto delle istituzioni internazionali, vissute sempre come illegittime anche quando elette come il Parlamento Europeo; rifiuto dell’euro in favore della sovranità monetaria nazionale, ripristino delle frontiere nazionali.
Ostilità nei confronti della comunità omoaffettiva, i cui diritti intaccherebbero la coesione sociale e sarebbero contrastivi nei confronti delle radici identitarie di un cristianesimo ideologico e poco evangelico.
Rifiuto degli immigrati islamici che, secondo loro, avrebbero valori non integrabili nelle nostre società e di volta in volta accusati di: rubare il lavoro, essere portatori di contagi patologici, di essere potenziali jihadisti.
Diffidenze che si accrescono quando l’immigrato oltre che essere musulmano è anche nero. L’incubo di questi movimenti è il meticciato, la globalizzazione che diventa un mondialismo che cancella ogni singolarità.
Un bel paradosso per chi fa dell’identità, e quindi dell’identico, l’asse portante del proprio ragionamento. Prima i cittadini del paese, il welfare ed i diritti solo per i nativi. Il Brexit ha fatto scuola.
Questa temperie che è culturale prima che politica, investe anche la Sardegna. Non potrebbe essere diversamente visto che la nostra isola soffre più di altri luoghi della crisi economica, della mancanza di lavoro, dell’emigrazione dei giovani, l’invecchiamento della popolazione.
Una terra che ha la sua anima colonizzata da immaginari estranei, che ha vissuto la modernità come devastante delle condizioni culturali originarie.
Il rifiuto dei migranti avvenuto a Monastir, Burcei e Buddusò sono i segnali allarmanti del risentimento e della paura che ci animano. Quelli sono stati casi limite, però basta entrare in un bar o salire su di un autobus per sentire discorsi che fanno accapponare la pelle.
Le reti sociali sono l’amplificatore di questo disagio. Cittadini, che si immagina irreprensibili, non esitano ad augurare roghi e camere a gas ai pochi migranti che hanno l’avventura di capitare da queste parti.
Fino ad ora chi ha raccolto questi consensi sono stati Salvini e Fratelli d’Italia e in una certa misura anche il resto della destra parlamentare. Negli ultimi anni però il panorama politico sardo è cambiato. Sempre di più c’è un area identitaria per ora più culturale che politica. Sarebbe meglio però definirla dell’autodeterminazione.
Il termine identità porta con se molte ambiguità, è una categoria costruibile a posteriori. È il soggetto ed il suo gruppo di riferimento che decidono cosa inserire e che cosa togliere, cosa la caratterizza e la rende singolare rispetto ad altro, cosa è sardo e cosa non lo è.
L’autodeterminazione ha in sé caratteri più chiari, è presa di coscienza, desiderio di impadronirsi della propria esistenza, una conquista di libertà. Una concezione che può contemplare non solo l’indipendenza, ma anche il rimanere dentro lo Stato italiano in diverse condizioni; o come oggi se i sardi lo riterranno opportuno.
È il diritto di libera scelta. Un spazio culturale che fino ad ora non è riuscito da esprimere tutte le sue potenzialità politiche a causa della legge turca – sì solo in Turchia ed in Sardegna c’è una legge con il blocco del 10% – per essere eletti in Consiglio Regionale, ma che nelle ultime consultazioni ha dimostrato un bacino di circa il 40% dei votanti. Oggi potrebbe essere cresciuta di molto.
Uno spazio politico che fa gola. L’area dell’autodeterminazione, storicamente dai sardisti agli indipendentisti movimentisti, è stata uno spazio radicato nella democrazia, insensibile a richiami esclusivisti, per nulla incline nella demonizzazione dei diversi, anzi portabandiera dei diritti sociali ed individuali.
Oggi però la destra che faceva riferimento ai partiti italiani si trova in grande crisi, non ha più tanto appeal tra i sardi. Alcuni dei loro politici sono tentati di fare in modo che il lupo fascista si nasconda sotto la pelle dell’agnello indipendentista.
I segnali ci sono. Sui muri dell’ex scuola di polizia penitenziaria di Monastir sono comparse scritte che facevano riferimento non più all’identità italiana ma a quella dei sardi.
L’Orbán in vellutino, il fascista italiano travestito da sardo, sta per irrompere nella scena politica. Occorre che le forze politiche dell’autodeterminazione siano chiare, facciano riferimento alla propria storia, rifiutino quel fascismo che si traveste da sardo per poterci colonizzare ulteriormente. È una battaglia per la nostra dignità e civiltà, per una Sardegna accogliente e migliore.
Nelle ultime settimane i rumors sulle possibili dimissioni del presidente Pigliaru si fanno insistenti. Le elezioni regionali potrebbero essere concomitanti con quelle del parlamento italiano, entro l’anno o nella primavera del ’18. Non c’è molto tempo. Buon 2017 a tutti noi.
*articolo pubblicato su concessione dell’autore e del sito www.sardegnasoprattutto.com
Caro Direttore,
non entro certamente nel merito di fatti violenti (penalmente rilevanti sia da parte di chi li ha compiuti, sia da parte di chi li ha ideati o in qualche modo istigati) che sono sempre da condannare. Però credo che questo sia un tema molto delicato e letto dai “sedicenti” intellettuali con le lenti sbagliate e CERTAMENTE non quelle della gente comune: quella che lavora e lotta tutti i giorni per portare qualcosa sul piatto, che vede i propri figli crescere in un’isola che decresce (per non dire altro) regalando loro un futuro sempre PIU’ CUPO. Certo il “sedicente” intellettuale ha la pancia piena e magari i propri figli li manderà altrove a studiare, procurandogli poi magari qualche posticino con l’aiuto dell’amico dell’amico.
Nel formarsi un’opinione su questo tema si dovrebbe tenere conto anzitutto di una serie di aspetti che solitamente l’intellettuale dimentica, omette o non considera nella giusta portata dolosamente (perché avvalla il business di qualcuno a lui vicino) o colposamente (semplicemente perché idealista, mosso dallo spirito dell’uguaglianza, fratellanza e libertà). Sappiamo bene che l’intellettuale (o sedicente tale) NON MUOVE PIUì VOTI. Sappiamo bene che le persone comuni oggi grazie ai social media hanno la possibilità di esprimere la loro opinione (giusta o sbagliata che sia! Chi ha titolo per dire che sia giusta o sbagliata? o che “fa accapponare la pelle?”) e influenzarsi reciprocamente, muovendo molti più voti degli intellettuali!
Prendiamoli allora questi temi spesso omessi o trascurati:
A) E’ un business per le organizzazioni che si occupano della cosi detta accoglienza: chi fornisce le 4 mura e il tetto, chi fornisce i pasti, chi fornisce i servizi di logistica, chi fornisce dei corsi formativi culturali (qualcuno è mai andato a vedere i bandi pubblici recenti tutti finanziati con denari pubblici cioé di noi contribuenti? Non si venga a dire che sono fondi vincolati UE? L’UE siamo noi e i vincoli li fanno chi dovrebbe rappresentarci o amministrarci!), professionali o di altro tipo, chi vende i generi alimentari acquistati con il pocket money, etc.
B) E’ un business per le prefetture-MinisteroInterno-Stato che richiede ed ottiene maggiori risorse da stanziare nel proprio BILANCIO a copertura dei costi della cosi detta accoglienza: già “bilancio”, la parola dice tutto visto che sappiamo quanto lo strumento dia spazio alla fantasia di coloro che finiscono per consuntivarci chissà quali altre spese. In altre parole la voce “accoglienza” con la quale i nostri politicotti vanno a chiedere all’unione europa “maggiore flessibilità” non è altro che l’ennesimo strumento per “spendere de più” (in direzione opposta alla spending review!) con il classico schema clientelare. Lei si fiderebbe del bilancio italico?
C) E’un business per le agezie di viaggio (si, proprio agenzie di viaggio) che promuovono, anche nei paesi dove non c’è alcuna guerra, un viaggio in europa. Ingaggiano i trasportatori tra cui compagnie di navigazione che hanno scali “tecnici” (anche i giochi di guerra nelle basi militari si fermano per farli passare!) con cui gestire questi clienti particolari lungo i propri viaggi di linea (quelli settimanali o infrasettimanali trai i porti del mediterraneo!).
Questi sono quelli che ne traggono i benefici (fanno business), ma chi paga il conto?
Naturalmente tutto è pagato dai contribuenti, dai cittadini e dalle imprese di oggi e di domani (attraverso quell’entità debito pubblico che ancora qualcuno pensa essere irreale) che dovranno tirare fuori ad ogni scadenza fiscale i propri denari guadagnati con la propria attività.
Ma non ci sono solo loro a pagare: c’è anche un costo difficile da quantificare ma che è indubbiamente altrettanto pesante e generato da questi afflussi incontrollati (perché al di fuori di qualsiasi pianificazione NON possono dirsi controllati) di persone. E questo costo lo sentono maggiormente non certo gli intellettuali nei loro raffinati appartamenti o ville, i cui figli sono impegnati dalla mattina alla sera, dalla scuola alle lezioni di questa o quella materia o alle attività più “nobili”e selezionate delle belle città. E’ il costo della comunità che vive quel territorio dalla mattina alla sera, dalla piazza al bar agli altri luoghi di ritrovo: molti figli di quella comunità sono stati costretti ad emigrare (SENZA ALCUN “CONTRIBUTO”!), spopolando quei territori e lasciandoli ancora più impotenti e in un certo modo indifesi.
Senza esprimere giudizi, ho solo una domanda da porre: perché non chiedere il parere a quelle comunità? Perché imporre con la forza (e con l’offerta di due denari peraltro pagati da noi stessi!) questi flussi?
Altro che manifestazioni (incluse quelle contro le basi militari): imponiamo piuttosto l’uso di uno strumento democratico (un referendum locale) e sentiamo le comunità interessate, quelle che subiranno gli effetti positivi ma anche negativi di queste scelte! Nessuno potrà recriminare e tutti potranno dire la propria civilmente.
Perché si ha paura di dare la voce agli interessati?
Per Vale. Non ho ville, non ho figli in assoluto. Campo del mio lavoro, come immagino faccia lei. Le ripsondo con post che traggo da fb. Non ho in tasca la verità, la cerco e ringrazio tutti per i commenti perché ciascuno porta il suo tassello che permette di costruire una “verità” sociale. Nella vita faccio il sociologo, sono quarant’anni ormai che studio la società sarda nei suoi comportamenti, progressi e regressi. I gruppi umani nei loro percorsi assomigliano più al gambero che ad un missile. Normalmente faccio ricerca partecipata, mi “immergo” nella realtà, quella che faceva il povero Giulio Regeni che ci ha rimesso la vita. Questo vuol dire che non mi baso solo sui numeri, parlo con le persone, frequento assemblee, salgo sugli autobus, entro nei bar e frequento le cantine. Sono sardofono e questo mi aiuta molto nel rapporto con le persone. So anche che solo il contattato umano non basta, le proprie esperienze personali non sono sufficienti ad interpretare il mondo, quindi studio, analizzo i dati, leggo le ricerche dei colleghi o di studiosi di altre discipline. Una lavoro da certosini. L’esperienza personale mi ha abituato a cogliere i “segnali deboli” ossia quei fenomeni che agli occhi non esercitati sembrano trascurabili ed invece sono il segno di possibili cambiamenti futuri. Io vedo che la situazione della Sardegna si sta incancrenendo, ora vorrei tralasciare di analizzare le cause, troppo lunghe per questo post, quanto vederne gli effetti. Noto che da noi c’è un cambiamento sostanziale rispetto all’emigrazione, negli anni ’90 la Sardegna ha ospitato centinaia di profughi della ex Jugoslavia e non ci furono queste reazioni, come non ci sono state per gli albanesi. A proposito dove sono finiti, dopo la loro supposta “invasione”? Non ci sono reazioni per i rumeni che fanno i servi pastori e senza di loro la nostra pastorizia non andrebbe avanti perché i nostri giovani quel lavoro non vogliono farlo. Non ci sono reazioni simili per le donne ucraine, moldave, rumene che si prendono cura dei nostri vecchi. Perché invece i migranti islamici, soprattutto se neri, provocano tanto subbuglio? Perché sono diventati per molti allarme sociale? Con l’articolo e con i miei post mi volevo riferire a questo brodo di coltura che può produrre soluzioni politiche molto spiacevoli soprattutto per noi. Mi si chiedono soluzioni, io sono un comune cittadino, non ho incarichi politici, non sta a me darle. Io mi limito a fare il mio lavoro, leggere i mutamenti e renderli pubblici, tanto mi basta. Se poi riesco a suscitare interrogativi ed anche polemiche, vuol dire che sto operando bene, perché questo è il mio ruolo, o almeno quello che io mi sono dato e che gli altri, se vorranno, mi riconosceranno. Ancora grazie per i commenti.
Grazie, ma omette di rispondere alla mia semplicissima domanda: perché si ha paura di dare la voce agli interessati (le comunità destinatarie di questi flussi)? Perché deve essere un politico o per lui un prefetto o anche solo un intellettuale o sedicente a dire cosa è giusto e cosa è sbagliato, cosa fa accapponare la pelle e cosa no?
La domanda di vale è di per se la risposta.quando si chiedere al popolo di fare scelte che investano il loro vissuto giornaliero inevitabilmente si crea un rifiuto.il non conosciuto crea disagio,se poi aggiungiamo una cultura di massa basata su canali unidirezionali (TV,) chiaramente portate a enfatizzare la moda del momento ,si capisce che si crea una xenofobia latente.in Sardegna sono arrivati pochissime persone ma reagiamo come se fossimo invasi da orde barbariche.scusatemi ma questa indennità sarda mi sembra una visione mistica più che una realtà .piu che puntare a una visione di popolo punterei su una condivisione delle risorse umane e storiche .la Sardegna può diventare un oasi dove le diversità diventino la risorsa non il problema.a vale dico che il senso di orticaria che ha percepito il professore è comune a molte più persone di quello che si pensi
Gianfranco, quanto scrive è esattamente l’assunto o convinzione dell’intellettuale o sedicente: il popolo (by the way sovrano) è sostanzialmente stolto e incapace di prendere le decisioni corrette nel proprio interesse. Ovviamente questo assunto si commenta da solo.
Basi militari, industrie inquinanti, flussi di immigrati, e via dicendo hanno effetti positivi (qualcuno ci GUADAGNA) e effetti negativi (qualcuno sostiene dei COSTI): la comunità interessata (nel suo complesso), civilmente e democraticamente è l’unica a poter decidere del suo futuro valutando benefici e costi e assumendosi le conseguenze.
Saluti
Perché gli islamici, soprattutto se neri, suscitano così tante preoccupazioni?
Ho l’impressione (solo impressione, badi bene) che la risposta non sia scritta nei libri di sociologia, neppure la si può cavar fuori dal contatto vis a vis con la ‘gente’ (una sorta di pass per avvalorare ogni tesi ed ogni stortura).
Avanzo il sospetto (solo un sospetto) che la risposta risieda, ben celata, nell’animo di ciascuno di noi – anche nel mio -, e non credo possa essere evocata attraverso narrazioni che si appellino alla coscienza, perché fa parte di quel racimolo maleodorante e pulsionale depositato nell’intimo più abissale che il nostro animo custodisce con gelosia e timore.
È l’antro del buio, delle paure inconsulte ed irrazionali, è, in definitiva, il quasi genetico ed umano terrore del diverso, di tutto ciò che scompagina la struttura umana delle relazioni e delle sicurezze, pre-ordinato e pre-costituito in millenni di educazione, soprattutto ambientale.
Si tratta, forse (nessuno può pretendere di possedere una verità su questa materia, perché forse non ne esiste una, ma tante quante sono le persone che nel respirare tremano), di una paura quasi archetipale per l’uomo occidentale, un retaggio storico sedimentatosi nel corso dei secoli.
Non vi è interrogare che la possa inquisire e porre sul banco degli accusati, come non vi può essere una risposta razionale che possa reggere il confronto al pianto, al dolore, al patire di un uomo o una donna o un bambino islamici, neri come la pece… E non esiste simpatia o empatia, neppure umanità o compassione, che possano annullare definitivamente, espungendolo dal nostro intimo notturno, quel racimolo maleodorante di cui ciaciavo poco sopra. Al più il pianto di un disperato che si appella ad Allah, che abbia pure, per sopramercato, una pigmentazione color della notte, può, per un attimo, fino alla prossima alzata di spalle, tacitarlo, sopirlo, sopravanzarlo, ma, credo, mai annientarlo.
Siamo figli delle nostre relazioni, della nostra educazione, la mente può scordare, ma l’anima ritiene sempre, come una profonda incisione che lascia tracce indelebili, quell’ammonimento udito troppo spesso nella primissima infanzia: “viene l’uomo nero e ti porta via”.
La sociologia registra le conseguenze, i sommovimenti sociali determinati da una causa che temo mai potrà guardare direttamente in faccia, perché, come la faccia del Dio del Roveto, quello sguardo annienta, uccide e ci fa sentire schiavi del nostro nulla interiore…
Non saranno la filosofia, neppure la sociologia, né la psicologia del profondo a sanare quella ferita, bensì, credo, solo la prossimità, la frequentazione, la condivisione, la nostra capacità, anch’essa umana, di saper vedere in quel buio islamico, noi stessi esposti alle medesime potenziali disgrazie, per cui, sia io che quell’islamico colorato, se offesi, ci offendiamo; se ingiuriati, insieme piangiamo; se pugnalati, entrambi sanguiniamo; sappiamo gioire delle stesse gioie e meravigliarci per le stesse meraviglie e morire per le medesime angherie naturali o artificiali.
In definitiva, la nostra naturale capacità d’identificarci col prossimo.
Ci distingue solo il differente modo di vedere il mondo, ed io ho una gran fottuta curiosità di poterlo vedere e sentire con gli occhi miei e quelli altrui, e sentirli con i sensi miei e quelli altrui… La vita è troppo breve perché possa permettere ad una fottuta atavica paura che, arbitrariamente, ha usurpato spazi che scientemente mai le avrei concesso, insediandosi nel profondo dell’anima… Mi rifiuto di aver paura.
Vittorio Sechi
Salve Vittorio
a me fa paura il business degli emigrati che ingrassa le organizzazioni criminali (pensiamo a tutto il flusso da dove proviene e chi lo gestisce….non lo fa per carità cristiana!), che ingrassa le organizzazioni non criminali (inclusi i produttori di armi o legate agli interessi economici sempre all’origine di ogni guerra o conflitto), ingrassa i politici, gli amici dei politici e gli amici degli amici con il conto sempre da pagare da parte dei contribuenti di oggi e domani, con i costi dai conflitti sociali creati ed ulteriormente accentuati nei confronti delle comunità non coinvolte nelle scelte ma obbligate passivamente e con la forza a ricevere quei flussi.
A me fa paura l’intellettuale o sedicente che nel 2017 crede ancora di farsi interprete del giusto e del non giusto, di ciò che fa accapponare la pelle e ciò che non lo fa, che considera il popolo stolto (“legioni di imbecilli”) e incapace di curare i propri interessi, che cerca di nascondere con argomentazioni generalmente astratte e slegate dal vissuto quotidiano di chi lavora realmente, gli interessi economici che stanno dietro tutti i fenomeni e di cui beneficia una piccola popolazione lasciando agli altri i costi.
A me fa paura che nel 2017 si pensa al futuro della Sardegna con schemi (destra, sinistra, socialismo, capitalismo, operai, borghesi, diritto al lavoro, busta paga e via dicendo) del tutto superati e che ci imprigionano ancora nei confronti e discorsi! Apriamo gli occhi e guardiamo i modelli che funzionano: sono quelli che hanno sottratto ai politici il controllo dell’economia (quella crea lavoro vero), l’intervento invasivo formalmente volto a tutelare diritti e interessi, ma sostanzialmente e sempre mirato a gestire il voto (dallo stipendificio, ai contributi a spendere fino alle fallimentari imprese a capitale pubblico) e quindi la conservazione della poltrona.
Saluti
Credo che il complesso e multiforme problema dell’immigrazione abbia due componenti primarie. Entrambe, intrecciandosi in maniera inestricabile, vanno a costituire il fenomeno che abbiamo sotto gli occhi e che l’intero mondo occidentale in questi anni sta subendo, senza riuscire a governarlo con sapienza ed intelligenza.
Una delle componenti è data dall’urgenza irrefrenabile (non oziosa gita di piacere) che questi uomini, donne e bambini avvertono di abbandonare i propri tetti e le proprie terre, per avventurarsi nell’ignoto ed ostile mondo della speranza. Non possiamo non tenerne conto, soprattutto quando questa urgenza è determinata da guerre, persecuzioni o carestie. I flussi migratori di massa sono sempre stati un fenomeno che ha alimentato la storia dei popoli, e quest’ultima ha dimostrato, ad abundantiam, che, una volta innescati, non possono essere fermati con l’erezione di muri e barriere (il Texas, rispetto ai migranti di lingua e cultura ispanica, ne è un clamoroso esempio). Possono essere dirottati in altri lidi, ma non certamente fermati, e spostarli verso altre latitudini, ovviamente sempre europee, non è una risposta adeguata.
L’altro capo del filo è rappresentato dall’esigenza di governare e gestire al meglio il fenomeno, contemperando al massimo livello possibile due aspetti, avvertiti quasi come alternativi e contrapposti, ma, se ben equilibrati, per nulla confliggenti: garantire la sicurezza e il benessere sociale delle comunità chiamate all’accoglienza e, al tempo stesso, non smarrire per strada uno degli elementi su cui si fondano le ragioni del vivere comunitario: l’obbligo di prestare soccorso ed assistenza.
È in gioco il rischio di disumanizzare la nostra società, e questo rischio è tanto più elevato quanto maggiori sono o saranno i fattori di disgregazione e di marginalizzazione di enormi aree geografiche del pianeta. Non possiamo permettere che, in nome di una ragionieristica economia ed economicità delle nostre azioni, si ponga in subordine proprio uno degli elementi fondativi del nostro essere umani, cioè il sentirci ed essere momentanei abitatori di un frangente del flusso ininterrotto della storia; non possiamo consegnare il futuro dei nostri figli ad un deserto valoriale che disconosca il nostro essere umani a vantaggio del nostro essere materiale organico avente esclusivamente valore economico.
Non esiste norma civile o amministrativa internazionale, né impedimento di carattere morale che possano essere eretti a canone universalmente riconosciuto ed accettato per opporre un rifiuto assoluto al diritto di ricercare e trovare in altri spazi le sufficienti condizioni che garantiscano ed assicurino la sussistenza in vita di quanti avessero giustificate ragioni per denunciare il rischio di morte a causa di persecuzioni, guerre o carestie. In sintesi, il diritto della persona ad emigrare è inviolabile ed intangibile, perché inscritto nelle nostre genetiche facoltà e necessità.
Passiamo all’altro capo del filo teso fra necessità di fuga ed esigenza di governare questi flussi.
Son ben cosciente che fra quanti attraversano il Mare Nostrum per approdare nelle nostre coste, sballottati per giorni e giorni fra il nero della disperazione e la luce della speranza, possano annidarsi anche terroristi. Ma so altrettanto bene che il terrorismo non rinuncerebbe mai a costruire altri varchi se quelli del mare fossero preclusi, e il rischio di saziare la fame di troppi pesci per evitare un probabile rischio, mi spiace, non sarei mai dell’idea di correrlo. Ma c’è dell’altro. Capisco che il problema si amplifichi una volta che queste anime dannate abbiano poggiato piede in terra ferma. Sorge ed emerge la questione della loro gestione, con tutti gli annessi e connessi da te ben evidenziati. Ma se la stortura o il deficit è tutto nostro (europeo ed italiano), mi spieghi perché cercare di scaricarlo su chi nulla c’entra.
Credo potrebbe esistere un’unica soluzione che salverebbe capra e cavoli, ma richiede troppo coraggio e cuore duro. Invece di piagnucolare tanto (ovviamente non alludo a te), si dovrebbe imbracciare coraggio e fucile per bombardare i barconi direttamente in mare. Dopo due o tre affondamenti, forse rinuncerebbero ad imbarcarsi perché il rischio di morte sarebbe almeno pari a quello che correrebbero restando nei loro luoghi d’origine… Naturalmente questa è solo una provocazione.
Un saluto
Vittorio Sechi
Caro Vittorio. Si dice che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Ho fatto una lunga lista di coloro che SPECULANO (fanno profitti, guadagni, denaro, PILLA!) sui flussi di queste persone. Ho fatto una lista di coloro che NE SUBISCONO gli effetti negativi (perdita, denaro in uscita, DANNU!). Ho fatto notare che gli uni sono pochi (quelli che si intascano i benefici, alcuni CRIMINALI, altri i soliti politici, amici dei politici o amici degli amici tra cui molte cooperative ben agganciate a partiti di ogni colore e orientamento), mentre gli altri (quelli che subiscono le conseguenze negative) sono i molti, senza che sia in alcun modo data loro l’opportunità di esprimere civilmente la propria opinione a tutela dei propri interesse (in quanto “legioni di imbecilli”).
Leggo ancora e solo di poveri migranti che fuggono da guerre, carestie, povertà, persecuzioni.
Quando scenderete dal piedistallo, non per carpire le battutacce nei bar o nei bus del volgo da riportare come cimeli nei vostri post o nei raffinati dialoghi da salotto, non sarà mai troppo tardi (almeno lo spero).
Saluti
Non so che dire… Non frequento salotti chic, o radical chic… Non amo i piedistalli, preferisco tenere i piedi per terra, questo almeno quando abbandono il mio mondo di utopia per confrontarmi con la realtà. Vedo che non gradisci parlare di uomini, donne e bambini, preferendo discutere e confrontarti su tematiche meramente economiche, ma io ho sempre creduto che questa importantissima disciplina fosse, o dovesse essere al servizio di quella che con noia e fra tanti sbadigli viene chiamata umanità.
Nessun problema, per quanto mi riguarda!
Atteso che son fermamente convinto che il fenomeno migratorio cui stiamo assistendo in questi anni sia e sarà per il mondo occidentale uno dei principali problemi da affrontare, e chi troverà la giusta chiave per interpretarlo ed affrontarlo in maniera adeguata avrà senza dubbio guadagnato spazio sui futuri libri di storia; atteso pure che credo non lo si possa frenare con qualche muso imbronciato, tantomeno con lo scherno, il dileggio, il disprezzo del diverso e che non necessariamente sia un male, ti confermo che sono assolutamente cosciente che si trascini appresso e generi una molteplicità di altre problematiche.
Io, inutile che te lo dica, non ho la chiave per risolvere o anche solo affrontare con sapienza il complesso problema. Sono però convinto che molte cooperative lo gestiscano con eccesso di arbitrio, senza rispondere del proprio operato.
Varrebbe la pena, penso, ricercare nuove formule, non più impostate sulla sciatteria e sulla facile demagogica presunzione che buttar dentro il pozzo senza fondo qualche decina di milioni di euro ci possa affrancare dalla responsabilità morale di essere, noi mondo occidentale, i veri fautori e la causa causante di questa migrazione biblica. Non credo che tu possa ignorare che troppo spesso i fondi internazionali assegnati ai Paesi africani finiscono investiti in approvvigionamenti di armamenti, utilizzati per perseguitare proprio quelle popolazioni che premono ai nostri confini (guerre interne talmente polverizzate da non riuscire neppure a guadagnarsi l’interesse dei media).
Non sono io ad affermarlo, esistono documenti inconfutabili.
Gli aiuti umanitari, troppo spesso, si traducono in una inutile ed insensata ‘posta di giro’ economica: investo in aiuti che ben sappiamo mai arriveranno, perché quei fondi torneranno nelle nostre tasche in forma di corrispettivo per acquisto di armi che noi produciamo ed esportiamo. Tutti sanno, anche tu immagino, che si fabbricano munizioni e bombe affinché siano utilizzate, e quando una bomba esplode, chi ne subisce il danno maggiore è proprio quella gente che cerca i barconi per salvare la propria vita.
È un circolo vizioso che dev’essere spezzato.
Qui, in Sardegna, credi che a Domusnovas costruiscano coriandoli da utilizzare per il carnevale? Dove vanno a finire quel che noi produciamo e che permette la remunerazione mensile di tanti operai sardi?
Credo che sia necessario inserire forme innovative di controllo dei fondi che destiniamo ai Paesi africani e a quelli che stanziamo per ‘l’accoglienza’ interna. Ciò per evitare che la disperazione dei tanti sia ragione di arricchimento per pochi.
Va da sé che qui in Italia qualsiasi iniziativa che comporti ingenti investimenti sia sempre infiltrata dal malaffare, non per questo, per esempio, si può rinunciare alla ricostruzione delle zone colpite da qualche calamità naturale. Non per questo agli abruzzesi può essere chiesto di rinunciare a L’Aquila o ai sardi di bonificare i terreni inquinati dai poligoni militari. Lasciare campo libero alla paura dell’infiltrazione mafiosa significa rinunciare al primario compito che investe lo Stato, cioè presidiare il territorio, per quanto gli compete.
Per ciò che riguarda, invece, lo sfruttamento della disperazione nei luoghi d’imbarco, credo che seri e controllati accordi con i Paesi d’origine (si conoscono, almeno in massima parte) potrebbero contenere la pressione sulle frontiere d’Europa. Cosa significa seri accordi?
Attraverso gli organismi internazionali, all’uopo istituiti, concordare piani d’intervento economico che non si traducano in elemosine pelose, ma programmazione effettiva che renda meno conveniente la traversata del Mediterraneo, e, soprattutto, un serio impegno che quanto edificato oggi non sia distrutto un domani dalle nostre bombe. Solo così, forse, lo slogan “aiutiamoli a casa loro” smetterebbe di avere quel sinistro suono della beffa ed assumerebbe senso e significato denso ragione.
Pensi davvero che io propenda e gradisca questa ‘invasione’? No! Perché è accompagnata dal dolore.
T’immagino avvolto in una nube di noia, per cui non proseguo oltre, ed oltre ci sarebbe tanto altro da dire e scrivere…
Un saluto
Vittorio Sechi
….Buongiorno trovo l’articolo leggermente capzioso o involontariamente lacunoso e forse non potrebbe essere altrimenti visto e considerato che sia l’astrazione che la totale conoscenza di chi scrive è irrealizzabile.Certo in Europa tira un aria che porta pensare a ulteriori e probabili vittorie delle destre,ma ragazzi” è la democrazia”ed è appunto capzioso accostare il ragionamento della “paura”alle volontà elettorali dei Popoli.Anche l’imprecisione di affibbiare al Parlamento Europeo una qualche autorità da “istituzione Sovranazionale” è a mio avviso un imprecisione capziosa come lo è sorvolare sul sentimento di appartenenza culturale che contraddistingue un Popolo nel suo territorio:Già,Popolo e Territorio con Cultura sono termini che pare che alla classe intellettuale e modernista di questo paese e di questa regione,non vadano tanto a genio visto e considerato che se proprio bisogna sfoderarli li si debba usare come orpello o allegoria per decretarne l’obsoleto significato e funzione….e invece a quanto pare sono ancora ben radicati nel profondo dell’animo delle persone che popolano in barba a qualsiasi logica e con stoica resistenza,terre emarginate e/o abbandonate dalle “istituzioni nazionali e sovranazionali”come la Sardegna…….ma capisco che parlare di sentimenti e animo in una disquisizione politica e sociologica leggermente capziosa o peggio ancora leggermente inesatta non ricada nel requisito fondamentali dell’accademia.