Quando una lingua è in difficoltà (così come quella sarda), deve crescere e ha bisogno di ossigeno di solito si ricorre alle traduzioni per rinvigorirla. Secondo gli ultimi rilevamenti sociologici disponibili (Ricerca Sociolinguistica della Regione “Le lingue dei Sardi”, 2007) infatti, mentre quasi il 70 per cento dei sardi dichiara di conoscere la propria lingua, solo il 13 per cento dei bambini la usa normalmente in casa con i propri genitori.
Una tendenza che, proiettata nei prossimi decenni, significherà certamente la scomparsa della lingua storica dell’isola. La presenza nelle scuole purtroppo è ancora troppo episodica.
Ciò che ha portato le famiglie ad abbandonare la lingua degli avi è stata la diffusione, negli ultimi decenni, di una costruzione identitaria negativa sul sardo fatta di pregiudizi, stereotipi, luoghi comuni e bugie vere e proprie di cui la popolazione si è convinta.
Uno di questi è la percezione diffusa di una mancanza di prestigio letterario, sociale e culturale del sardo. Tradurre capolavori della letteratura mondiale in sardo, insieme ad altri interventi di politica linguistica (come la presenza e la visibilità nella pubblica amministrazione e nei media) contribuisce a restituire al sardo una dignità culturale che non trovi la sua legittimazione solo negli ambiti folkloristici e dialettali.
Lo scopo è duplice. Da un lato sollecitare la presa di coscienza da parte della popolazione, e dei lettori, che il sardo può assolutamente misurarsi con forme di scrittura di alto livello e contenuto.
Dall’altro, dare un impulso concreto alla produzione letteraria in lingua sarda che, nei due decenni appena trascorsi, ha comunque raggiunto traguardi di buon livello sia per la quantità (oltre 200 romanzi pubblicati) sia per la qualità (alcuni romanzi hanno ottenuto riconoscimenti in premi di alta qualità).
Di rimando, si ottengono anche altri risultati non meno importanti. Si crea lavoro nel settore editoriale e professionale linguistico con impegni remunerati per editori, traduttori, editor, correttori di bozze, stampatori, distributori e librai.
Dall’altro si forniscono alle scuole materiali didattici letterari non folkloristici di alto livello che possono competere con quelli di altre lingue più riconosciute e legittimate.
La scommessa è insomma quella di togliere alla lingua sarda quella patina e immagine di arretratezza popolare degli ambiti tradizionali e utilizzarla invece per veicolare contenuti contemporanei, universali e accattivanti della moderna cultura occidentale.
Presentarla, insomma, agli occhi della popolazione come una lingua “normale”. Del resto tutte le lingue hanno subito questo passaggio, anche l’italiano nell’Ottocento, quando era una lingua in via di legittimazione traduceva i classici europei per offrire modelli ai propri scrittori.
Da una lingua tradizionale che veicola solo la “cultura sarda” (cioè quella identitaria-folkloristica) a una lingua che si misura con una cultura di tipo internazionale che buona parte dei sardi oggi apprezza e sente sua. Ma senza rinunciare alla lingua propria.
Insomma la lingua sarda “possiede”, anche grazie ad altre case editrici, ora la prima parte di una biblioteca internazionale di traduzioni di tutto rispetto con autori, tra gli altri, del calibro di di James Joyce, Garcia Marquez, Luis Sepulveda, Goethe, Stevenson, Leopoldo Alas, Mendoza, Salgari, Machiavelli, Omero, Sofolce, Sibilla Aleramo, Von La Roche, De Amicis, Kavafis, Lewis Carrol, Saramago, Unamuno, Coromines e altri su cui, per ora, Miguel de Cervantes spicca per l’importanza letteraria della sua diffusione nel mondo.
Le traduzioni di Dubliners e Il fantasma di Canterville, così come le altre, è stata realizzata con l’uso delle norme ortografiche della limba sarda comuna perché, a parere dei promotori, non può esistere una lingua normale che si scrive in due o più dialetti-varianti.
Condizione essenziale per una letteratura degna di questo nome, o per l’uso ufficiale della lingua, è aver un modello condiviso unico di scrittura. Altrimenti si ricade nella trappola della visione dialettizzante e folkloristica. Cosa che in Sardegna e per il sardo è purtroppo un argomento sempre all’ordine del giorno.
La speranza è che dal confronto vivo con le letterature prestigiose anche la letteratura della minoranza linguistica sarda cresca e si scrolli di dosso ogni residuo di folclorismo o di stereotipi post colonizzazione, pur senza rompere con i valori alti della società tradizionale.
E che i traduttori, soprattutto quelli giovani, siano i nuovi scrittori in sardo di domani. Sarà più difficile, per i detrattori in malafede, affermare che il sardo sia un dialetto (cioè una lingua inferiore) a patto che si affermi un solo modello di scrittura e i dialetti-variante esistano in altri registri.
E a patto soprattutto che la Regione torni a investire su queste operazioni che danno qualità a un discorso linguistico che altrimenti resta confinato al folk, ai comunicati stampa e al dibattito accademico.
Se vogliamo che lingua sarda, in tutte le sue varianti, non muoia è necessario che ridiventi parlata e poi scritta. Perchè questa differenza temporale? Perchè è necessario riappropriarsi della stessa, “pensandola”, e questo può avvenire più facilmente col parlarla. Cosa intendo per pensandola? Che le frasi vengano dapprima pensate in sardo e poi “parlate”. Non pensate in italiano e poi tradotte in sardo. Ma per assurdo che possa sembrare potrebbe andare bene anche così. L’errore si potrà correggere col confronto. Capiterà che qualcuno dica “all’apprendista” .. “ma itte ses mande.. ma a ti segheras?” e l’altro avrà il tempo di correre ai ripari, sempre che ne abbia la voglia. Dopo di che potrà dare inizio alla scritture e alla lettura, che non è facile. Anche lì ci sarà la strage degli innocenti. Innegabile che ci debba assere però il sardo riprenderà ad essere lingua scritta e parlata. L’opera di tradurre è meritoria, e va incentivata quanto quello della scrittura diretta. Io ho conosciuto le dita delle mani “biaitte”, vale a dire livide, per via delle bacchette del maestro perchè tardavo a imparare la lingua straniera che mi stavano imponendo: l’italiano. Le risate di quelli che la sapevano parlare, poi, hanno fatto il resto. Morale della favola, ai miei figli li ho educati parlando la lingua straniera. Il sardo lo parlano storpiandolo, a dolu mannu, colpa mia, però, se vogliono, impegnandosi, possono correre ai ripari e rimediare. Tutto è volerlo. E smettiamole con le dispute del si dice e non si dice. Prima recuperiamo la lingua poi, nei momenti del confronto, da creare, ci sarà il tempo di scornarci fra di noi saccenti, e magari di tenere ciascuno la propria idea, basta che sia in sardo, e non in lingua straniera.
B’at finas sos libros bortados dae mie in sardu, zai sunt bator e so bortende su de chimbe. Est chistione de “Oramài” e “Un’umbra in su paris”, de Edmondo Mazzoni; “Cuntrollado’, b’at una berveghe in su trenu!”, de Moreno Babboni; “Òmine de famìlia”,de Edoardo Tincani. Si podent cumandare in sas librerias o in sa retza in su telezassu de Youcanprint s’imprentadore, est a narrer http://www.youcanprint.it.