È passata appena una settimana ma nel bombardamento di informazioni a cui siamo sottoposti, sembrano sette anni.

Tanto tutto è volatile che tutto pare possa essere piegato, modellato, rivisto o ignorato, a seconda della convenienza di parte.

Come sempre tocca, dunque, ai cronisti provare a fare memoria, per aiutare il pubblico a districarsi. Del resto, quella di mettere in ordine – anche cronologico – i fatti, è una delle necessità più stringenti in momenti così confusi.

E allora gioverà ricordare che sabato 7 marzo esistevano appena due zone “rosse” in cui provare a contenere il contagio da coronavirus, sottoposte ai vincoli con cui da qualche giorno tutti conviviamo: quella del Lodigiano (con epicentro Codogno) e quella di Vò Euganeo, in provincia di Padova.

È allora che il governo – e le autorità sanitarie che hanno preso il controllo della cabina di regia preposta a monitorare contagi, ricoveri, guarigioni e decessi – inizia a rendersi conto che sotto la cenere del periodo di incubazione cova un fuoco che rischia di diventare un incendio controllabile.
Dunque l’esecutivo inizia a maturare l’idea di estendere prima a tutta la Lombardia e ad altre 11 Province del Nord più colpite (e poi a tutta l’Italia) – dopo la chiusura delle scuole, arrivata già due giorni prima – le misure e i divieti che conosciamo: niente spostamenti (se non per comprovati motivi) e nessun assembramento.

La serata di sabato 7 diventa convulsa. Da Palazzo Chigi partono – verso i Ministeri e verso le Regioni – diverse bozze di Decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, con l’intento di chiedere suggerimenti e proposte di correzione.

Come è inevitabile, il canovaccio sul quale il governo sta lavorando diventa immediatamente pubblico.

Viaggia sulle pagine online dei giornali italiani e internazionali e da chat in chat.

In Lombardia, in tanti, disperati al pensiero di restare reclusi in quello che ci si illude (o si teme) possa diventare l’unico lazzaretto sul territorio della Repubblica, iniziano ad affollare (ma il fenomeno era già iniziato nei due giorni precedenti) porti, aeroporti e stazioni ferroviarie, direzione le regioni del sud e la Sardegna.

Ai residenti che mirano a fare ritorno a casa prima dello stop si aggiungono migliaia di proprietari di seconde case.

È in queste ore – e in questo quadro di confusione e attesa – che matura la decisione della Regione Sardegna di chiedere il blocco di porti e aeroporti.

A decreto ancora non varato – per la precisione alle 00.29 della notte fra il 7 e l’8 marzo – dal comando operativo della Protezione Civile Sarda, dove sono riuniti – tra gli altri – il presidente della Regione Christian Solinas e il direttore generale della struttura Pasquale Belloi, parte una mail che nell’intestazione reca “Ulteriore rettifica- Regione SARDEGNA-URGENTE-DPCM misure di carattere nazionale”, con la quale si chiede di sostituire le comunicazioni (le richieste? i suggerimenti?) precedenti.

Cosa propone la Regione al presidente Conte, che si appresta a firmare un decreto che resterà epocale?

È presto detto: “Allo scopo di prevenire il diffondersi del virus Covid 19, nella regione Sardegna sono adottate le seguenti misure. 1) È vietato fino al 3 aprile, salvo casi urgenti e indifferibili, ogni spostamento in ingresso e in uscita a bordo di navi passeggeri e aerei di linea 2) il traffico marittimo di merci è consentito solo attraverso rimorchi non guidati 3) il traffico aereo è consentito solo per il servizio postale”.

Misure draconiane, che in quel momento devono essere sembrate troppo severe alla Presidenza del Consiglio dei ministri.

Un’ora e mezzo dopo (sono le due della notte fra il 7 e l’8 marzo) il presidente Conte tiene una drammatica conferenza stampa, in cui si lamenta per la fuga di notizie sul decreto non ancora varato (“che sta ingenerando caos e confusione”).

Un’altra ora e mezzo dopo – sono esattamente le 3.20 di notte – il decreto, in cui non c’è traccia delle richieste della Regione Sardegna a proposito del blocco aereo e navale, viene finalmente pubblicato in Gazzetta Ufficiale.

L’8 la situazione precipita: da un lato il governo si prepara a estendere la zona rossa a tutta l’Italia, dall’altra la Giunta regionale Sarda emette un’ordinanza molto stringente, che impone – tra le altre cose – l’obbligo di quarantena a tutte le persone sbarcate nell’Isola nelle due settimane precedenti.

Nel comunicato stampa che accompagna il provvedimento, da Villa Devoto viene dato conto della richiesta di blocco, respinta dal governo.

Da Roma, silenzio assoluto. Nessuno conferma o smentisce.

La politica sarda, invece, inscena una piccola baruffa: da ambienti Pd, Progressisti e LeU si critica la richiesta bollandola – da un lato – come inopportuna e/o non utile politicamente e al lato pratico e – dall’altro – arrivando a irriderla dal punto di vista dell’applicabilità, in quanto asseritamente contraria alla Costituzione.

Tant’è.

Il resto è storia più recente: il 13 marzo la Regione fa sapere di aver rivolto una istanza al Ministero delle Infrastrutture, dipartimento Trasporti, in cui – con altre modalità rispetto all’8 – ripropone il blocco aereo e navale, affidando al governatore eventuali deroghe.

Dopo una breve istruttoria, la ministra Paola De Micheli concede il via libera e dispone lo stop negli spostamenti.

Nel mezzo – sempre da LeU – era arrivata la richiesta di espulsione dei non residenti dal territorio sardo, non raccolta né dalla Regione, né dal governo.

Questa la cronologia degli eventi, che può rappresentare un utile e costruttivo punto fermo nella legittima discussione su ciò che è stato fatto, viene fatto o deve essere fatto in seguito.

Avere ricette diverse è legittimo, ma l’importante è non piegare a proprio piacimento le date e gli accadimenti, arrivando persino a tentare di delegittimare chi svolge il proprio dovere civico di informare, con serietà e indipendenza.