Vorrei fare due considerazioni a proposito di bilinguismo. Il significato di questo termine con il tempo è divenuto un mito, un miraggio; io penso però che si tratti più che altro di una tragedia. In questo ultimo periodo se ne parla molto, senza però avere chiara la definizione del termine. Cercherò qui di chiarirla.

Il bilinguismo è una parte del plurilinguismo, cioè la capacità che possiede una persona di parlare senza alcuna difficoltà due o più lingue, imparate in cas a o a scuola, passando da una all’altra secondo gli interlocutori che ha davanti. A questo tipo di bilinguismo lo chiamiamo “bilinguismo individuale”.

Ricordiamoci però che chi conosce bene due o più lingue, generalmente ne ha una che è la sua lingua più intima, la lingua degli affetti primari. Si può anche dare che la lingue degli affetti primari, quella della famiglia naturale o acquisita, non sia una ma siano due.

Un altro tipo di bilinguismo è quello che si dà quando in un paese coesistono comunità linguistiche presenti in un luogo geograficamente delimitato, con frontiere linguistiche conosciute e accettate. È il caso della Svizzera, per esempio, che possiede quattro lingue ufficiali, o del Belgio, dove si parla olandese nelle Fiandre e francese in Vallonia. Questo tipo di bilinguismo riceve il nome di “bilinguismo territoriale”; all’interno però dei confini linguistici di ogni terrotorio si possono dare, e si danno, molti casi di bilinguismo individuale.

Un terzo tipo di bilinguismo è quello presente in un luogo dove si parlava, e si continua parlando una lingua che definiamo lingua del luogo, perché nata e sviluppatasi in quel luogo alla quale, per cause economiche o sociali, vi se ne è aggiuna un’altra, straniera. Sono solamente, e quasi escusivamente, i parlanti della lingua autoctona quelli che imparano, per obbligo o per loro volontà, la seconda lingua, la straniera; raramente succede il contrario.

Questo tipo di bilinguismo è definito “bilinguismo sociale”, ma lo si potrebbe anche chiamare “bilinguismo a direzione unica” perchè è soprattutto la gente del luogo che si vede obbligata a imparare la lingua straniera. Il destino della lingua autoctona è quello di essere usata solamente in situazioni informali, collochiali, familiari; questa lingua viene sempre più accantonata, messa in un angolo, minorizzata, mentre la lingua imposta , la dominante, la lingua venuta da fuori è usata in situazioni formali, nell’amministrazione, in chiesa, nella scuola: diviene la lingua colta. In questo caso bisogna parlare più che di bilinguismo, di conflitto linguistico, permanente. È questa la tragedia che dicevo innanzi: si tratta di un tipo di bilinguismo che favorisce sempre la lingua più forte.

E Iddio ci liberi dal volere standardizzare e normalizzare la lingua minorizzata, dal volerla introdurre a scuola con gli stessi diritti della lingua dominante; questo significherebbe uccidere la bellezza di tutti i suoi dialetti, sarebbe un’imposizione, predicano dalle cattedre dell’università, questa non è democrazia. Hanno l’abilità di far passare la vittima per oppressore.

Ciò che pretendono è il mantenimento del conflitto linguistico, in attesa della morte della lingua del luogo.