Si è intensificato il dibattito sull’euro e sulla permanenza dell’Italia nell’eurosistema. Si susseguono pareri resi da illustri economisti stranieri che poco conoscono il nostro Paese e altri da parte di chi, all’interno, affronta razionalmente il problema e chi emotivamente.

Dopo Mervyn King, che aveva visto giusto fin dall’idea stessa dell’euro, Barry Eichengreen ribadisce che l’euro e l’ingresso dell’Italia sono stati “errori storici”, ma ritiene che non possano essere corretti con l’uscita dalla moneta unica; pensa invece che occorra completare l’unione bancaria, dissociare l’attività bancaria dal mercato dei debiti pubblici, eliminare la direttiva del bail in e restituire la sovranità fiscale agli Stati-membri (l’opposto di ciò di cui si discute); per quanto riguarda l’Italia, ritiene che restare nell’euro sia una condizione indispensabile per attuare le riforme necessarie.

Il fatto che, ad esempio, la BCE non possa esercitare in piena autonomia la funzione di lender of last resort e non governi il valore esterno dell’euro non sembra essere per lui un aspetto rilevante del problema.

L’amico e stimato collega, Pierluigi Ciocca, descrive uno scenario catastrofico nel caso in cui l’Italia decidesse di abbandonare l’euro, come è raro leggere anche da parte dei più accesi difensori dello status quo; egli sostiene che non è l’euro a creare problemi, ma la politica mercantilista della Germania, che con i suoi ingenti surplus di bilancia estera crea deflazione. Poiché anche altri paesi membri e la stessa Italia sono nelle stesse condizioni, sia pure in dimensione più moderata, il fatto stesso che nell’euro si pratichino politiche mercantiliste significa che il sistema non funziona.

Il problema è quindi anche nella moneta unica, come è stata costruita e gestita.

Ho ripetutamente chiesto ai colleghi economisti di dare una duplice risposta al problema: a quali condizioni l’Italia può stare nell’euro e, se esse non vengono accettate, quale decisione prendere. È ciò che ho chiamato Piano A (quello delle condizioni esterne e interne per stare nell’euro) e Piano B (le condizioni per uscirne), come ogni gruppo dirigente serio di un paese dovrebbe avere perché l’euro può giungere al punto di rottura in qualsiasi momento.

La mia posizione in materia è chiara: un mercato unico richiede una moneta unica; se l’area in cui opera è caratterizzata da dualismi (diversità strutturali nei saggi di crescita della produttività) occorrono politiche adatte a compensare gli squilibri che ne conseguono, affinché la politica monetaria comune possa funzionare.

L’area del dollaro presenta dualismi e politiche adeguate che gli Stati Uniti hanno praticato anche nei confronti dell’area occidentale, quando a Bretton Woods ha preteso che il dollaro fosse la moneta di riferimento degli scambi internazionali. Il Trattato dell’UE ignora il dualismo e rifiuta la politica; pensa che one size fits all, che l’impostazione data vada bene per tutti. È inutile che la si giri e rigiri, il sistema non funziona in modo equo e non fornisce crescita, rompendo la logica stessa di un’unione di popoli che hanno gli stessi diritti, oltre che gli stessi doveri.

La politica europea, sorretta dalla maggioranza degli analisti, è scivolata nell’idea che i problemi nascessero all’interno dei paesi membri e quindi i dualismi andassero rimossi con le riforme e non con politiche comuni che si prefiggessero di eliminarli. Perciò fin dall’inizio ho suggerito che l’Italia dovesse firmare il Trattato di Maastricht, rispettare il libero scambio delle merci, ma chiedere il libero scambio dei fattori di produzione (lavoro e capitale) e invocare, come fatto dal Regno Unito, la clausola dell’opting out, lo stare fuori dall’eurosistema, poiché mal costruito e l’Italia impreparata ad affrontarne le conseguenze.

Ora ci viene detto che siamo costretti a restare nell’euro perché uscire sarebbe un dramma, da parte degli stessi che hanno contribuito a commettere l’errore e ora lo difendono. Questa posizione va contro la più rilevante conquista di civiltà dell’era moderna, quella che la convivenza sociale richiede di aiutare i più deboli, dato che i più forti sanno cavarsela da soli.

Esattamente ciò che, nei rapporti tra nazioni, viene rifiutato dall’Unione Europea. Credo che sull’argomento vi sia ormai poco da dire che non sia già stato detto, anche se manca una chiara risposta. La sopravvivenza dell’euro e gli effetti che causerà sono ormai al vaglio della storia. Mantengo viva la speranza d’avere torto. Ne sarei felice per il Paese e l’Unione Europea.

Ma questa speranza non attenua i contenuti di un accordo mal confezionato e mal gestito che potrà anche sopravvivere, ma con un costo per l’Italia ben più elevato di quello che sarebbe chiamato a sopportare per liberarsi dal fardello dell’errore commesso.