Un mio vecchio maestro mi ricordava che non bisognerebbe mai abusarne.

Eppure le citazioni, a volte, possono aiutare a rimettere in fila i pensieri.

Dunque giova ricordare che se Eraclito sentenziava che “la verità ama nascondersi”, l’economista e sociologo Vilfredo Pareto – un paio di secoli dopo – precisava che “conoscere la verità è importante ma non sempre è opportuno e utile”.

Cercherò, dunque, di sviluppare dei ragionamenti, senza dimenticare questi due assunti.

Il punto di partenza è il surreale dibattito che ha preso forza in queste ultime settimane – in maniera non certamente slegata dalla strisciante crisi della Giunta Pigliaru e della sua sgangherata maggioranza in Consiglio regionale e dal devastante (per il centrosinistra sardo) risultato del referendum del 4 dicembre – a proposito delle alternative che dovrebbero nascere in vista delle prossime elezioni regionali.

Più compiutamente, l’alternativa – auspicata da molti – di una proposta nuova che parta dalla riscoperta di un’identità sarda per elaborare una piattaforma di governo imperniata su ricette innovative, moderne, solidali e sarde.

Non una parola è stata dedicata agli ultimi, a quelli che sono rimasti indietro, ai senza lavoro (giovani o quarantenni e cinquantenni che siano), al modello di sviluppo che occorrerebbe codificare, studiare e sperimentare. Agli studi, all’acquisizione dei dati e all’analisi di essi, che occorrerebbe mettere in campo prima di scrivere – in maniera partecipata – questa piattaforma.

No. Sui social gli azzeccagarbugli della retorica parlano di altro: primarie, secondarie e matrici ideologiche. “Nessuno faccia fughe in avanti”, “sì, ma non dobbiamo dimenticare la matrice marxista”, “no, ma cosa vuol dire identitari o globalisti”, “boh, ma che cosa vuole Muroni? E’ solo un blogger”, “e Devias? non ci basta quanto visto con la Murgia?”, “ma pensare di riscrivere lo Statuto è un imbroglio, una perdita di tempo”,”mai con i sardisti che regalarano la bandiera a Berlusconi”, “anzi, mai pure con chiunque di quelli che hanno collaborato con Pigliaru”, “niente alleanze, il popolo sardo si deve riunire e per farlo deve venire con me”.

Scusate, io credo che ognuno di noi stia contribuendo a dar vita a uno spettacolo poco edificante, dal quale vorrei smarcarmi.

Non per albagia o alterigia, ma semplicemente perché in tutti questi discorsi non c’è niente di nuovo. Si può, anzi, intravedere una riproposizione di antichi riti, mefitici attorcigliamenti e pratiche che un po’ hanno a che fare con l’invidia e un po’ con la pigrizia mentale.

Perché? Semplicemente perché in questo surreale dibattito i grandi assenti sono i sardi, i cittadini, gli invisibili, quelli che il lavoro non ce l’hanno e quelli che lo dovrebbero creare portando avanti le loro imprese, spesso piccolissime. I grandi assenti sono i temi, gli approfondimenti, i dibattiti, i confronti, lo studio delle problematiche.

Scusate, ma pensate davvero che alla gran maggioranza di sardi gliene freghi qualcosa di Muroni (che tra l’altro non è candidato a nulla), Devias, Cumpostu, Pili, Maninchedda o Muledda?

Io spero che nessuno sia realmente convinto di essere centrale nella vita di qualcun altro solo perché ha 100 follower su Twitter o riesce a muovere 500 persone per un convegno o un’adunata.

Io credo che occorra spersonalizzare questo dibattito, altrimenti corriamo il rischio di farlo nascere morto. Tirando la volata ai soliti noti e ottenendo l’effetto di impedire – ancora una volta – la nascita di un’alternativa possibile, inclusiva, democratica, solidale. E sarda.

“La resurrezione di un popolo non può farsi con la menzogna; menzogna sono e saranno sempre tutti i concetti politici fondati sulle opportunità passeggere, su transazioni sull’avvenire e un passato non nostro”. Sapete chi lo disse? Giuseppe Mazzini, uno di quelli che contribuì alla tanto esecrata Unità d’Italia.

E’ una frase giusta, un Vangelo.
Fa il paio con la citazione che ho fatto, nei giorni scorsi, di Enrico Berlinguer a proposito della difesa di tutte le libertà, tranne una: quella di sfruttare il lavoro di un altro essere umano.

Mettiamoci, dunque, d’accordo su una cosa. Se cito Mazzini sono per la fusione perfetta – pre Unità d’Italia, d’accordo – e per i suoi effetti, ancora riscontrabili? E se cito Berlinguer significa che sogno una Sardegna collettivizzata, socialista o comunista?

Cerchiamo di essere seri. E’ finito e deve finire il tempo delle strumentalizzazioni e delle semplificazioni. Dobbiamo invece sforzarci di riunirci su una base comune di valori, non più patrimonio esclusivo delle vecchie famiglie politiche del XIX e XX secolo. Non per fare un esercizio di modernità ma per sintonizzarci il più possibile, senza per questo farci travolgere, con i sentimenti diffusi di un popolo deluso, fiaccato, distaccato e a volte non più costruttivo.

Dobbiamo intercettarne il grido di dolore cercando di incanalare le pulsioni verso una riscossa democratica e non populista, disfattista, xenofoba e “peggiorista”.

Dobbiamo avere il coraggio di preparare un’alternativa moderna, inclusiva, democratica e sarda. In assoluta discontinuità con quel che abbiamo visto, vissuto, sperimentato e subito negli ultimi 25 anni.

Dobbiamo avere il coraggio di dire che l’assistenzialismo non ha mai risolto e mai risolverà i problemi della Sardegna.

Dobbiamo avere l’onestà di dire che la Regione ha allargato a dismisura l’orizzonte dei suoi interessi, diventando un mostro burocratico che decide su tutto e non ottiene niente. Un ente multiforme che mette i bastoni tra le ruote ai Comuni, invece di aiutarli. Che si parcellizza in enti e partecipate, disperdendo per strada risorse, energie e speranze.

Dobbiamo trovare la strada per pensare a come l’economia di Stato possa tornare a essere l’economia del borgo. A come trasformare la politica dei partiti in politica sociale, la cultura della tradizione in tradizione della cultura.

Dobbiamo pensare a come lavorare proficuamente con l’Europa, rendendoci conto che comunque in questo mondo globale l’Europa non è tutto: il confronto, lo scambio e il dialogo devono ripartire dalle nostre comunità e dai nostri territori. Principalmente da quelli di cui è stata già decretata la morte. Una fine contro la quale occorre battersi con coraggio. Perché non c’è niente di ineluttabile. Senza per questo tornare all’isolamento. Anzi, ripartendo da queste specificità per andare incontro a un mondo che cambia e che rischia di travolgerci.

Il mare non è nostro nemico, occorre vincere questa paura. Un mare da percorrere, con la finalità di rinsaldare il dialogo con i nostri più immediati vicini, come la più comoda delle autostrade, mezzo vitale di comunicazione e non di fatale limitazione.

La vocazione della nostra terra non è quella della petrolchimica, né della metallurgia. Non è incarnata dall’industria pesante o dalle partecipazioni statali. Quel che già c’è va forse salvato per il contingente, ma non rappresenta il nostro futuro.

Abbiamo mille strade davanti, e dobbiamo trovare la forza di accordarci per capire quali sono le più proficue da seguire, in vera autonomia.

Perché il nostro interlocutore – quello che si è fatto principe e quello a cui la nostra classe politica è vergognosamente prona – è uno Stato, occupato da partiti diventati comitati d’affari, che si materializza come un dinosauro lento di riflessi e dall’insaziabile fame, divoratore di risorse e calpestatore di bilanci e accordi.

Un Gigante dai piedi di argilla, una barca con mille falle, che a dispetto dei suoi proclami si rifugia nella sempre antica ricetta del “tassa e spendi”, repentinamente trasformata nel “tassa e spreca”.

Sempre per restare nell’alveo delle citazioni, non è lontano il giorno in cui qualche ministro dell’Economia (supportato da chissà quale epigono nostrano) penserà di far diventare realtà la vicenda dei “Quaranta scudi” di Voltaire, in cui si pensa di poter istituire una tassa sull’intelligenza: una gabella che finalmente in molti saranno felici di pagare. Specialmente i cretini di ogni età e risma.

Detto tutto questo, possiamo dire che è tempo di indipendenza? Io credo sia anzitutto il tempo in cui si debba smettere di prendere in giro la gente e ci si debba assumere la responsabilità di abbandonare le velleità di principio per sposare la proposta di autogoverno.

Potremmo, ad esempio, cominciare a essere indipendenti dai partiti romani, quelli che hanno sempre scelto per noi leader e programmi.

Potremmo, ad esempio, iniziare a utilizzare al massimo le prerogative che già l’attuale Statuto autonomistico ci assegna, senza avere paura di pensare a una sua successiva riscrittura e aggiornamento. E iniziare a parlare di autodeterminazione.

Potremmo iniziare a fare bene le cose che ci competono, proponendo noi le soluzioni e indicando tempi, modi e programmi.

Dobbiamo costruire una nuova classe dirigente, investire risorse in confronto e dibattito, in attesa di avere la responsabilità di investirne – tante, tantissime – in istruzione, cultura, formazione, modernità.

Dobbiamo mettere barriere non tanto in ingresso, quanto in uscita. Scoraggiare la fuga dei cervelli e delle migliori intelligenze, offrendo loro la possibilità di formarsi nel mondo ma con l’intesa che la loro opera e la loro crescita dovrà poi essere messa al servizio della Sardegna.

Per fare tutto questo occorre già ora conoscere il nome di chi – da primus inter pares di un vasto movimento culturale e politico – dovrà poi dar gambe ai progetti?

Io credo di no. Io credo che la cosa più urgente sia quella di creare occasioni di confronto e, se necessario, scontro.

Vincendo la perversa attitudine a essere autoreferenziali ma sforzandoci di essere quel che diciamo di essere.

In un altro articolo ho proposto alle attuali opposizioni in Consiglio regionale – quelle, naturalmente, che sono disposte a staccarsi dalla centrale di potere romana – di iniziare loro a tracciare la strada, pensando a un nuovo forum programmatico, che mi piacerebbe aperto a tutte le forze sociali e politiche che sono presenti nella società.

Solo confrontandosi capiranno se si possono trovare orizzonti comuni alternativi al sistema di potere che oggi ci governa. Ci si può confrontare e lasciarsi subito oppure confrontarsi e trovare le formule per andare avanti.

Per scegliere il leader o la leader c’è tempo. Anche perché cosa ce ne facciamo di un leader o di una leader che non sa cosa deve fare e con chi lo deve fare?

Auguri a tutti noi. E nessuno si senta offeso. Parlare chiaro, con spirito costruttivo, non è mai offensivo.