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Chi scrive – pur già dotato di capigliatura canuta – sconta un deficit generazionale che lo ha segnato nella conoscenza di questo conterraneo così importante, universalmente, per la storia del ventesimo secolo.

Quando Enrico Berlinguer moriva a Padova, consumando la sua fine – alla maniera della tragedia greca – su un palco allestito per un comizio elettorale, frequentavo appena le scuole medie.

E la prima volta che mi sono recato al voto, nel 1992, da matricola universitaria, sulle schede elettorali non c’era il simbolo del Pci.

Il partito fondato da Antonio Gramsci era rimasto sepolto – assieme al suo simbolo così evocativo degli interessi della classe operaia – sotto le macerie del muro di Berlino.

Dalla morente Unione Sovietica arrivavano parole nuove (glasnost, perestroika) che diventarono parole chiave del mio esame di maturità, preludio di un nuovo inizio che annunciava una globalizzazione del pensiero e un progressivo superamento, assieme alle seppur intollerabili distorsioni nei regimi del Patto di Varsavia, di un’Idea che a lungo aveva evocato speranze di uguaglianza, diritti, libertà, riscatto delle masse e accesso alla cultura e al progresso.

Perché dico questo? Perché un adolescente italiano di fine anni ’80 e inizio anni ’90 ha dovuto scegliere di studiare e conoscere Gramsci.
Nessuno lo ha inseguito per farlo.

Mentre le nuove classi dirigenti di quello che era stato il suo partito si affannavano a convincere l’opinione pubblica di “non essere mai state comuniste” o di aver da tempo maturato la convinzione che “la fase propulsiva del comunismo italiano era ormai esaurita”, il quotidiano L’Unità (a proposito, anche questo fondato da Antonio Gramsci) diventava non più uno strumento di divulgazione di idee, studi, analisi e confronti con uno sguardo sul futuro, ma un vuoto allegato a campagne finalizzate a vendere album di figurine, videocassette e ammennicoli vari.

O, in una visione meno severa, un foglio prevalentemente incentrato sulla figura di Silvio Berlusconi, quasi che questi fosse l’esclusivo centro del mondo, politico e culturale, italiano.

Tutto questo mentre nelle Università degli Stati Uniti e dell’America Latina al pensiero gramsciano venivano dedicati corsi di studio, seminari, convegni, approfondimenti e pubblicazioni.

Per chiudere questa premessa, con la quale spero di non aver irritato nessuno, fino a un’età più adulta e consapevole confesso di aver maturato la convinzione che – appunto – Antonio Gramsci fosse stato – sic et simpliciter – un grande pensatore perseguitato dal fascismo.

Nessuno più aveva interesse a ricordare che in realtà fu un leader politico che – a dispetto della sua condizione fisica e del brevissimo arco temporale nel quale la sua azione pubblica ha potuto svilupparsi – aveva esperienze di così tale peso specifico difficilmente eguagliabili in un paio di vite.

Cofondatore del Partito comunista italiano, segretario e leader dello stesso, cofondatore e poi direttore della rivista L’Ordine Nuovo, fondatore del quotidiano L’Unità, animatore dei consigli di fabbrica a Torino.

Gli anni del carcere, gli ultimi della sua vita, sono quelli che ci restituiscono il Gramsci che, distratto dall’impegno politico, aveva rinunciato a diventare quel grande glottologo che il suo maestro – il professor Matteo Giulio Bartoli, della facoltà di Lettere dell’Università di Torino – aveva scorto in lui e nel suo sempre curioso approccio agli studi della materia.

Dell’importanza della lingua, nella sua funzione pedagogica e dunque anche politica, sono permeati gli scritti dal carcere: sia i Quaderni che le Lettere.

La lingua appare come una “concezione del mondo integrale, e non solo un vestito che faccia indifferentemente forma a ogni contenuto”.

E, ancora, la lingua diventa un prodotto sociale, l’espressione culturale di un popolo, di una classe sociale, di ogni individuo.

“Come la lingua dà forma alla concezione del mondo di ognuno, così lo studio del mondo e della realtà permette di raggiungere nuove conoscenze sulle sfumature di significato delle diverse parole. Lingua e realtà hanno, dunque, un rapporto reciproco”.

E, ancora, ogni lingua è il contenitore della cultura del popolo che la parla, ma al tempo stesso è specchio delle varie differenze di classe che possiamo trovare all’interno di una società e all’interno della stessa classe, tra singoli individui. Quindi, la lingua non ha una natura statica, né omogenea. E’ diversa da persona a persona e, al tempo stesso, cambia per lo stesso individuo nel progredire del tempo.

La lingua, dunque, come concezione del mondo, come testimone della vita culturale di ogni parlante, di una classe sociale, di un popolo, di una nazione.

Alla nozione di lingua – per Gramsci – è doveroso affiancare quella di linguaggio, perché ne specifica e il significato e aiuta a districarsi nel complicato percorso di stratificazione che ha accompagnato l’Unità d’Italia.

Perché, appunto, l’unità linguistica è un risultato e non un punto di partenza.

In Sardegna diversi intellettuali hanno preso a modello una delle Lettere dal carcere indirizzate, da Gramsci, per la gran parte ai familiari: alla moglie e ai figli, alla cognata, alla madre, alle sorelle e al fratello Carlo.

Si tratta di una missiva alla sorella Teresina, in cui era affrontata la questione della Lingua sarda.

“Carissima Teresina,
mi è stata consegnata sola pochi giorni fa la lettera che mi avevi inviato a Ustica e
che conteneva la fotografia di Franco. Ho così potuto vedere finalmente il tuo bimbetto e te ne faccio tutte le mie congratulazioni; mi manderai, è vero? anche la fotografia della Mimì e così sarò proprio contento. Mi ha colpito molto che Franco, almeno dalla fotografia, rassomigli pochissimo alla nostra famiglia: deve rassomigliare a Paolo e alla sua stirpe campidanese e forse addirittura maurreddina: e Mimì a chi somiglia?
Devi scrivermi a lungo intorno ai tuoi bambini, se hai tempo, o almeno farmi scrivere
da Carlo o da Grazietta. Franco mi pare molto vispo e intelligente: penso che parli già correttamente.
In che lingua parla? Spero che lo lascerete parlare in sardo e non gli darete dei dispiaceri a questo proposito. È stato un errore, per me, non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente il sardo. Ciò ha nociuto alla sua
formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia. Non devi fare questo errore coi tuoi bambini. Intanto il sardo non è un dialetto, ma una lingua a sé, quantunque non abbia una grande letteratura, ed è bene che i bambini imparino piú lingue, se è possibile. Poi, l’italiano, che voi gli insegnerete, sarà una lingua povera, monca, fatta solo di quelle poche frasi e parole delle vostre conversazioni con lui, puramente infantile; egli non avrà contatto con l’ambiente generale e finirà con l’apprendere due gerghi e nessuna lingua: un gergo italiano per la conversazione ufficiale con voi e un gergo sardo, appreso a pezzi e bocconi, per parlare con gli altri bambini e con la gente che incontra per la strada o in piazza.
Ti raccomando, proprio di cuore, di non commettere un tale errore e di lasciare
che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire, tutt’altro.
Delio e Giuliano sono stati male in questi ultimi tempi: hanno avuto la febbre spagnola; mi scrivono che ora si sono rimessi e stanno bene. Vedi, per esempio, Delio: ha cominciato col parlare la lingua della madre, come era naturale e necessario, ma rapidamente è andato apprendendo anche l’italiano e cantava ancora delle canzoncine in francese, senza perciò confondersi o confondere le parole dell’una e dell’altra lingua.
Io volevo insegnarli anche a cantare: «Lassa sa figu, puzone», ma specialmente le zie si sono opposte energicamente[…].
Abbraccio Paolo affettuosamente; tanti baci a te e ai tuoi bambini
Nino”

E’ il 26 marzo del 1927, e Gramsci rivela una serie di intuizioni formidabili sull’importanza, sull’utilità, sul ruolo e la funzione della lingua sarda, specie per quanto attiene allo sviluppo del bambino e allo stesso apprendimento dell’italiano.

Giova ricordare che, se per un attimo ci sintonizzassimo col mondo distopico in cui oggi la politica e il mondo dell’informazione sembrano volerci precipitare, che Gramsci Antonio Francesco aveva sangue “sardo” nelle vene solo per parte di madre.

La sua famiglia paterna era arrivata in Italia dall’Albania un paio di secoli prima. E suo padre stesso era nato sulla terra ferma, ben lontano da Ghilarza, Sorgono, Ales, Santu Lussurgiu: i luoghi in cui l’uomo politico nacque e si formò.

Giova ricordarlo, con una piccola ma spero non banale incursione nel dibattito politico di oggi, a proposito di quello Ius Culturae che tanto sembra spaventare.

In Sardegna, vorrei sommessamente rivendicarlo, da sempre sardo è chi si sente sardo e da sardo vive, pensa, contribuisce alla crescita della società, integrandosi con essa.

Ma torniamo brevemente alla lettera, riprendendola al punto in cui Gransci ammette che “è stato un errore non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente in sardo”. Si tratta di un errore oltremodo diffuso nella cultura e nell’intera scuola italiana, ancora oggi ma soprattutto nel passato.

Un errore e un pregiudizio che deriva da lontano e su questo voglio citare uno studioso sardo di assoluto valore, come Francesco Casula: “Basti pensare ai primi Programmi della Scuola italiana, impostati a partire dall’Unità e dalla Legge Coppino del 1867 secondo una logica statoiatrica e italocentrica, finalizzata a creare una supposta
coscienza “unitaria” un cosiddetto spirito “nazionale”, capace di superare i limiti
– così erroneamente si pensava – di una realtà politico-sociale estremamente divisa,
differenziata e composita sul piano storico, linguistico e culturale. Così, tutto ciò che anche lontanamente sapeva di locale – segnatamente la storia e la lingua – fu rigidamente espunto ed espulso dalla scuola, represso e censurato, messo a tacere e bandito o comunque marginalizzato nella vita sociale”.

In verità, in altri scritti, sia carcerari che di periodi precedenti, Gramsci aveva parlato di dialetto. Nella sua concezione “politica” della lingua non faceva molto differenza: il dialetto è una lingua – o un linguaggio, appunto – poiché anch’esso è recipiente di una concezione di mondo di una determinata zona geografica che, nel caso di una grande isola, coincideva con un popolo e una nazione.

La differenza – rispetto alla lingua adottata in maniera universale per rendere lo Stato unitario – è il fatto che questo linguaggio è la plastica raffigurazione di una contraddizione e un problema di tenuta della società che è esploso in tutta la sua dirompenza in quest’ultimo ventennio e che Gramsci aveva intuito un secolo prima: il conflitto città-campagna.

“La lingua del popolo vive in campagna – diceva – ma muore in città, perché a mancare è la fondamentale caratteristica popolare, il concetto di senso comune e concezione del mondo”.

Per chiudere, amaramente: “Ciò che è diventato ferrovecchio in città è ancora utensile fondamentale in provincia”.

Mi avvio alla conclusione richiamando alcune didascaliche riflessioni che prendono avvio dalla lettera a Teresina e si incrociano con altre incursioni sul tema della lingua, che ho sommariamente cercato di riassumere.

Ancora Casula: “Gramsci ha espresso, sulla lingua materna, valutazioni che i linguisti e i glottologi così come gli studiosi delle scienze sociali (psicologi come pedagogisti, antropologi come psicanalisti e persino psichiatri) hanno in seguito articolato, argomentato e rigorosamente dimostrato come valide, in modo inoppugnabile”.

Chiudo affidandomi ancora alle parole di Gramsci: “Certo, la lingua unitaria è una necessità, per l’esistenza dello Stato. Ma è altrettanto necessario – concludeva quel grande politico e intellettuale – mantenere la lingua della nascita. Quest’ultima, a contatto con la lingua unitaria, sarà il primo passo verso la formazione di una società capace di sforzi comuni, solidarietà e progresso”.