(Pro lèghere s’artìculu in sardu pùnghere subra sa bandera in artu)

Sempre in merito alla genesi degli istituti autonomistici in Italia un discorso diverso rispetto alla Sicilia và fatto per quanto riguarda le due realtà alpine di Trentino-Alto Adige/Südtirol e Valle d’Aosta. La prima fu regione dell’impero austroungarico fino al suo scioglimento, imposto dalle potenze vincitrici la I guerra mondiale con il trattato di Saint-Germain del 1919, a cui fece seguito l’annessione all’Italia l’anno successivo.

Abitata da popolazioni appartenenti a tre diversi gruppi etnici, vedeva nell’area bolzanina un’ampia maggioranza germanofona mentre una piccola e compatta comunità ladina o reto-romanza era insediata ai piedi delle Dolomiti.

Com’è noto la regione altoatesina fu oggetto, durante tutto il ventennio fascista, di una aggressiva politica di assimilazione e italianizzazione che si concretizzò nel rigetto di ogni istanza di tutela delle due lingue, nelle espulsioni forzate di loro parlanti (a cui fece da contraltare una forte immigrazione di italofoni attorno a Bolzano), nell’italianizzazione dei toponimi o, per quanto riguarda i ladini, nella fine dell’unità amministrativa attraverso la separazione in tre province.

A compensazione dei molti torti subiti da queste popolazioni durante il regime appena abbattuto, nell’immediato dopoguerra il premier italiano De Gasperi siglò con il ministro degli esteri austriaco Gruber uno storico accordo con cui venivano normalizzati i rapporti tra i due Stati che decidevano così di risolvere formalmente il contenzioso rispetto al territorio sudtirolese.

Esso prevedeva l’istituzione delle due Province autonome di Trento e Bolzano ed inoltre l’attivazione del regime di bilinguismo perfetto tra italiano e tedesco in tutto l’Alto Adige (ma anche la tutela dei ladini il cui territorio diventava così trilingue).

Solo parzialmente dissimile è il discorso concernente la Valle d’Aosta. Escludendo infatti la zona di Gressoney, dove sono stanziate popolazioni germanofone (i walser), la lingua propria di quella che gli autonomisti chiamano “petite patrie” è il franco-provenzale o arpitano: un idioma diffuso in tutta l’area prospiciente il monte bianco a cavallo tra Italia, Svizzera e Francia e che presenta tratti intermedi tra francese ed occitano.

La sua frammentazione dialettale e politica, il suo relativo prestigio sociale e l’influenza francofona hanno tuttavia indotto nel corso dei secoli gli intellettuali, le istituzioni ecclesiastiche ed i movimenti identitari della regione a preferire il francese al patois quale lingua di cultura, oltreché delle istituzioni civili e religiose.

Anche qui, come in Alto Adige, il regime fascista adottò durante tutto il ventennio in cui fu al potere una politica di sradicamento dell’influenza d’oltralpe e in cui l’italiano fu imposto a tutti i livelli.

Come parziale risarcimento e a tutela nei confronti di questa penisola linguistica francofona (anche per motivi di buon vicinato con Parigi) fu istituita nel 1948 la Regione Autonoma della Valle d’Aosta, il cui statuto speciale ebbe e continua ad avere come finalità principale quella di garantire il bilinguismo perfetto tra italiano e francese a tutti i livelli, a partire dalla toponomastica e dai programmi scolastici.

Le ridotte dimensioni e l’uniformità geografica, che sono tali da farne una vera e propria isola circondata dalle montagne (e questa è una delle tante affinità con la Sardegna), hanno inoltre decisamente favorito il permanere di una fortissima identità non solo storico-culturale ma anche politica: questa, nel corso dei decenni si è manifestata in un consenso largamente maggioritario che i valligiani hanno sempre riservato alle formazioni autonomiste, a partire dalla storica Union Valdôtaine.

In Alto-Adige a rappresentare le istanze della comunità tedesca (e in parte di quella ladina) a Roma è invece da sempre la Südtiroler Volkspartei.
Dal 1948 al 1992, durante cioè tutta la cosiddetta prima Repubblica (periodo in cui com’è noto i governi si reggevano su maggioranze tendenzialmente piuttosto risicate) questo fondamentale dato politico ha consentito alle due penisole linguistiche, attraverso un approccio costantemente utilitaristico dei loro rappresentanti nelle istituzioni, di mantenerne fortissimi visibilità e potere contrattuale, con tutti gli straordinari benefici che via via ne derivavano, un voto di fiducia dopo l’altro.

I sardisti invece, privi in epoca repubblicana di quel consenso nazionale di massa che era stato attribuito loro fra le due guerre, ma soprattutto a causa del proprio relazionarsi con le istituzioni romane in modo tendenzialmente fatalista e, mi si consenta, piagnone (e quindi senza una concreta assunzione di responsabilità attiva e propositiva) non sono stati invece in grado di ottenere altrettanti vantaggi a favore dell’isola.

Di tutto ciò continuiamo purtroppo a pagare le conseguenze.
[CONTINUA]