Senza innovazione non si cresce: né culturalmente, economicamente, né come società.

E siccome produttività e redditi vanno (o dovrebbero andare, in una organizzazione sociale che funziona) di pari passo con la sussidiarietà e la giustizia sociale, garantendo a chi è rimasto indietro un presente e un futuro dignitoso, possiamo concludere che innovazione fa rima anche e soprattutto con equità e progresso.

L’attuale arretratezza del sistema pubblico e privato, per certi versi, può trasformarsi in una grande opportunità.

Può consentire a un modello virtuoso – che metta in rete l’impegno della Regione, di Cagliari città metropolitana, delle università, di enti come Sardegna Ricerche, del sistema delle imprese, del venture capital e degli istituti di credito più illuminati – di entrare in contatto con uno smisurato numero di potenziali cittadini-clienti, offrendo loro una non più rinviabile possibilità di modernizzarsi.

Si può persino dire di più. Se è importantissimo capire e conoscere le nostre radici – sapere, cioè, da dove veniamo – occorre però uscire in fretta dall’inganno che su connottu è quello che ci può salvare, da solo.

L’esperienza è importante, quando però serve a evitare nuove e vecchie trappole.

Se invece viene utilizzata (magari con lo spauracchio dell’inafferrabilità delle certezze, quando si tratta di nuove scommesse) per immobilizzare il sistema, può rivelarsi mortifera. E ci porta all’attuale situazione di stagnazione economica, sociale e di valori.

Cosa fare per migliorare, favorendo la cultura – non solo imprenditoriale – dell’innovazione?

Anzitutto occorre una rivoluzione culturale, di testa, che parta dai banchi della scuola.

Magari evitando, come si è fatto in un recente passato e per motivi probabilmente molto meno che nobili, di depotenziare progetti di altissimo profilo come quello della Scuola Digitale, snaturandoli o privandoli di alcuni importanti passaggi legati alla formazione del personale docente, alla dotazione delle infrastrutture immateriali e alla realizzazione dei contenuti. O come si fa oggi, quando si registra la crisi di importanti eccellenze culturali come il Premio Dessì e il Festival di Gavoi. Per tacere, per ovvi motivi di coinvolgimento personale, delle molteplici convergenze di lobby ed élite, che provano a isolare e uccidere nella culla il progetto Mont’e Prama.

Che fare? Servono coraggio e visione, serve volare alto e guardare alla modernità, agli esempi più virtuosi.

Magari avviando un gigantesco piano di alfabetizzazione digitale (a oggi esiste ancora una vasta fetta d’Italia – il 34% della popolazione, secondo recenti statistiche – che non ha mai effettuato una connessione a internet), che arriverebbe comunque in ritardo di dieci anni.

Ed evitando, a partire dal governo centrale, di sabotare (con l’introduzione di sempre nuovi balzelli e astruse norme di legge) tutto ciò che è prodotto della ricerca scientifica e della modernità.

E, ancora. Alle aziende digitali e innovative non servono contributi a pioggia ma concrete azioni di miglioramento di quello che questa nuova generazione di imprenditori chiama “ecosistema”: più facilità di accesso al credito, meno burocrazia, più certezze normative, meno “tutto e subito” e più visione di sistema.

Non scordiamoci che in Sardegna non partiamo dall’anno zero, visto che da almeno trent’anni l’amministrazione regionale non ha lesinato sui fondi per la ricerca scientifica e tecnologica.

Qua si è prodotta una realtà come Tiscali. E c’è Nichi Grauso, che all’inizio degli anni ’90 si mise alla testa dei sognatori che credevano alla rivoluzione di internet.

Ci sono diverse start up molto dinamiche e più di un incubatore che sviluppa e raccoglie ottime e innovative idee.

Questo tessuto deve crescere fino a diventare una rete di imprese capace di entrare in connessione, da Teulada ad Ardara, passando per Tresnuraghes e Bortigiadas, solo per fare alcuni esempi.

Ognuno dei capi dell’Isola può e deve diventare protagonista nella sfida per la modernità.

Perché se non cambiamo – subito e ora – forse non ci sarà un domani.