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(Premessa)

Questo articolo non elenca le responsabilità di politici e dirigenti medici, non incita all’invidia sociale e nemmeno alla rivolta. Cercherà di rifuggire ogni demagogia e facile populismo. Ed è scritto per impedire, anzitutto al suo autore, di scordare il significato di dovere civico, comunità, emergenza, responsabilità.

Ergo, sarà letto da non più di venti o trenta persone. Non è destinato a fare più di due milioni di visualizzazioni o a scorrere di chat in chat, accompagnato dal ridicolo invito a “far girare”, manco fosse il quarto segreto di Fatima che “le televisioni ci tengono nascosto”.

Questo articolo nasce da un disagio profondo, da un senso di inadeguatezza che si aggiunge a un’impotente rassegnazione che via via, anch’essa come un virus ancora senza vaccino, invade gli organi vitali per la respirazione e toglie progressivamente l’aria.

Non solo ai polmoni ma anche al cuore (deluso, ferito, rassegnato) e al cervello (incapace di metabolizzare il caos organizzato e le incontrollate, basiche, pulsioni di una moltitudine urlante).

 

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«La vita non ci appartiene, ci attraversa»

(Niccolò Ammaniti, “Anna”)

 

Alla fine degli anni Novanta un aspirante biologo, figlio di psicoterapeuta e in procinto di diventare scrittore di grande successo, si trova su una spiaggia del litorale laziale.

La sua attenzione viene conquistata da un gruppo di bambini che gioca, senza alcun adulto nelle vicinanze. Quei bimbi sono assolutamente liberi da sovrastrutture e si danno regole di comune buon senso, organizzandosi in modo autonomo, aiutandosi l’un l’altro.

Partendo da questa suggestione, Niccolò Ammaniti partorisce un romanzo (“Anna”, appunto), che viene dato alle stampe nel 2015.

Per chi non lo avesse letto ne riassumo la storia, che vi sembrerà per alcuni tratti tristemente profetica.

Siamo in Sicilia, nell’anno 2020. Un’epidemia causata da un virus sconosciuto ha ucciso tutti gli adulti e ogni centro abitato è progressivamente trasformato in un cumulo di rovine.

Solo i bambini sono sopravvissuti, anche se il virus – col quale anch’essi sono venuti in contatto – rimane latente: man mano che crescono e raggiungono l’età matura, uccide anche loro.

E’ la storia di un destino che si scopre ineluttabile.

Anna, protagonista che dà il nome al romanzo, è una ragazzina tredicenne che ha come unica missione quella di proteggere il fratellino Asor.

Anna altro non ha: il fratello, il coetaneo Pietro, un cane fedele e un quaderno di istruzioni (“il quaderno delle cose importanti”), che la madre le ha consegnato prima di morire, affinché sapesse come comportarsi davanti alle difficoltà.

Due le raccomandazioni che le ripete con più insistenza prima di morire: “Non abbandonare mai il fratello minore e insegnagli a leggere”.

Il resto, chi vorrà, potrà trovarlo nel libro che sarebbe già dovuto diventare una serie tv.

Perché il mio ragionamento è partito da “Anna” e dalla visione “profetica” del geniale Ammaniti?

Semplicemente perché, oggi e nella mia visione a breve/media scadenza, al grande pericolo sanitario si affianca quello della tenuta sociale e democratica.

Purtroppo nel mondo degli adulti una serie di bisogni materiali, l’inflazione dei cosiddetti “diritti” (rimando alla lettura di un saggio di Arturo Carlo Jemmolo, “I problemi pratici della libertà”) rivendicati sempre e ovunque (“… da un lato corrodono l’autorità della legge, dall’altro sviliscono il valore dei diritti nella coscienza collettiva. Così come l’inflazione di Corti dei diritti ha di fatto aumentato i conflitti di competenza e i contrasti giurisprudenziali, a scapito sempre più della tutela dei diritti di libertà del cittadino…”), l’assenza di doveri, l’invidia sociale, l’assoluta assenza del sentimento di coesione sociale e istituzionale porta a riflessi condizionati che impediscono un corretto e salutare esercizio del controllo di chi esercita l’azione di governo.

In breve, a un iper attivismo e iper criticismo che mina la convivenza e conduce al cortocircuito relazionale.

“Siamo nel corso di un’emergenza mai attraversata prima nel corso della nostra storia repubblicana”, ha sentenziato un ministro tra i più esperti e preparati.

Io non so fare classifiche.

So per certo che la società italiana ha già affrontato e superato momenti difficili dal punto di vista della sicurezza personale ed economica dei suoi cittadini, della sospensione dei diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione e della tenuta democratica.

Tra il 1970 e il 1988 – per limitarsi al fenomeno delle Brigate Rosse e tacere di quello legato alle stragi del terrorismo nero e dei servizi deviati – un nugolo di uomini e donne armati, passati in clandestinità, dotati di un piccolo arsenale e di coperture non ancora definitivamente chiarite, arrivò a un passo dal mettere in ginocchio lo Stato.

E ancora qualcosa di simile accadde con la “spallata” che Cosa Nostra tentò fra il 1992 e il 1994, nella stagione stragista.

Il virus della violenza fu così violento che lo Stato decretò – di fatto – l’emergenza nazionale, arrivando a sospendere diritti costituzionalmente riconosciuti.

La società si compattò e, al di là di responsabilità, inadeguatezze e connivenze dei singoli governanti, vinse la sua lotta.

Solo dopo averla, unitariamente, vinta, si aprì la stagione dei processi (non ancora conclusa!), delle revisioni, della resa dei conti e delle riforme.

Qual era la differenza con il tempo malato in cui viviamo oggi? Non che anche allora non ci fosse chi aveva ricette fantasmagoriche e alternative a quelle dei governi, non che allora i Torquemada non esistessero.

I bar e le piazze erano pieni di gente che avrebbe voluto “l’Italia in mano per un quarto d’ora, poi avresti visto”.

Oggi a virus si aggiunge virus.
Lo sfogatoio pubblico e le chat diventano strumento non più di scarico dello stress o della rabbia (se si limitasse a questo avrebbe anche una certa funzione terapeutica) ma rischiano di innescare un dirompente effetto a cascata su una governance che tutti auspicheremmo organizzata e efficace.

Ancora di più quando la tenuta sociale, civica e democratica non è salda.

E allora il cittadino smarrito, abbandonato, impotente e senza risposta si affida a qualsiasi spazzatura senza controllo: il virus che vive per settimane sull’asfalto, la medicina prodigiosa scoperta in Papuasia, i politici che si tengono tutto lo stipendio, i commissari che dovrebbero commissariare il commissario nella sua gestione commissariale.

E il dramma che questo fiume che lentamente si ingrossa finisce per far presa anche su qualche decisore.

Diventa così l’anticamera della catastrofe.

Voglio con questo dire che tutto funziona al meglio e non ci sono responsabilità da parte delle istituzioni, nella tragedia che stiamo vivendo?

Mai detto e mai pensato. Tutto è davanti ai nostri occhi. La sottovalutazione, le parole di Conte, Zingaretti, Fontana, Sala, Gori e Zaia a febbraio. I decreti scritti in maniera confusa e costantemente in ritardo rispetto ai fatti. Gli aperitivi sui Navigli, la gente a sciare nei week end, la fuga al sud e in Sardegna, i ritardi nell’acquisizione dei Dpi, gli errori della Protezione civile nazionale, il traccheggiare delle Regioni, i silenzi della Giunta regionale sarda, gli autogol verbali dell’assessore alla Sanità sardo, i medici e gli infermieri infettati in corsia (in tutta Italia, e ora anche in Francia e Spagna), i pazienti rimandati a casa a infettare i loro parenti, i tamponi che non vengono fatti, i tagli alla sanità negli ultimi dieci anni, i dirigenti di presidio nominati per fedeltà politica.

Se volete, proseguo per ore.

Ma a cosa servirebbe, ora, con ospedali pieni e cimiteri al limite della capienza?

Oggi ci servirebbe lo spirito di quei bambini visti da Ammaniti mentre giocavano in spiaggia, intenti a trovare soluzioni e regole comuni, ad aiutarsi fraternamente.

Servirebbero lo spirito di Anna, il coraggio di Pietro, la speranza di Asor.

Servirebbe non farsi strumento di irresponsabili ed egocentrici demagoghi che giocano allo sfascio.

Serve restate uniti per superare l’emergenza. Servono generosità e proposte (anche critiche) costruttive.

Serve controllare ma non demolire. Serve fare pressione perché la politica metta il personale sanitario in condizione di ben operare, ma non serve distruggere. Altrimenti sarebbe il caos.

Serve scoprirsi comunità e non un insieme di maledetti e autodistruttivi egoismi.

A queste condizioni, possiamo avere speranza di superare oggi l’emergenza sanitaria e domani quella economica e sociale.

Altrimenti siamo già morti, tutti, come gli adulti del romanzo “Anna”.