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In custas dies s’est iscritu meda de identidade, passadu, presente e benidore, in custu logu de addòbiu fìsicu, mancari chi in unu mundu virtuale che a su de internet.
E tando m’agradat a propònnere unu pensamentu meu reghente in contu de custu tema.
Sa Sardigna est unu continente, cun medas pàtrias minores, chi cadauna at un’identidade sua.
No isco si cust’istadu siat fìgiu de su connotu, de s’isolamentu o si at a èssere bortuladu in presse dae sa globalizatzione e dae s’agiudu a s’ispopolamentu de sas zonas internas e rurales chi mi paret chi est cussigende sa polìtica.
Isco chi nois pitzocos naschidos in sos primos Annos Setanta, semus istados forsis sos ùrtimos a connòschere in totu, in sa pitzinnia, cussu mundu betzu e s’organizatzione sua.
A dies de oe, mancari mudadu dae sa modernidade globalizada, su continente de sas pàtrias minores bivet galu pro more de sa fortza manna manna chi s’identidade lìberat, belle sena si nde abigiare.
Mi pregonto, in s’ìnteri chi lego unu libru alenende su retumbu de una limba faeddada chi no est pròpriu sa mia, in cale mundu ant a bìvere sos fìgios de fìgia mia, intro de chentu annos.
Mi pregonto subra su benidore de custu continente e de sas pàtrias suas minores, sena resessire a mi dare una resposta cumprida, chi siat dadivosa e segura. No at a èssere unu mundu a mala bògia peus de custu, ma at a èssere, a manera làdina, diferente, comente est semper istadu chentu annos in fatu a chentu.
Ma ite ammentu galanu de sa pàtria mia minore de sos annos 70 e 80, de sos personàgios suos, de sos ritos suos, de sa capatzidade sua de baliare a issa matessi. In Sardigna, in su dibàtitu pùblicu, paris cun sa contrariedade istòrica (semus medende belle unu sèculu prus o mancu) dereta/manca est avantzende una bìnchida de pare intro chie diat bòlere costoire, in sa modernidade, una Sardigna de sas pàtrias minores e chie at imbetzes una mirada prus cruda de sa modernidade, prus ligada a sas bìnchidas de pare econòmicas e a su poderiu de sos nùmeros imbetzes de s’amparu de sa traditzione e de unu modellu de organizatzione sotziale.
At a èssere de aficu a averguare custa bìnchida de pare.
Sono sardo di nascita e di cuore. Il destino ha voluto che vivessi e lavorassi con l’Organizzazione delle Nazioni Unite dal 1975 al 2012 fuori dalla Sardegna. Essenzialmente, in Africa, Medio Oriente, Asia Centrale e Estremo Oriente. Da quattro anni son di nuovo nella nostra Isola. Da un lato, mi scuso in anticipo delle mie lacune nella conoscenza della storia e delle problematiche sarde e forse anche dell’uso non troppo classico dell’italiano. Dall’altro lato l’aver vissuto fuori dall’Isola mi ha fatto conoscere di prima mano delle realtà che aiutano a capire meglio la situazione sarda attuale e ad interpretarla.
“Pocos, locos y mal unidos”.
Questa trilogia é conosciuta molto più dagli stessi sardi che da quelli che sardi non sono. E ha influenzato e continua ad influenzare discussioni sul passato, presente e futuro della Sardegna. Contrariamente a quanto molti pensano, questa frase non sarebbe stata detta o scritta dall’imperatore Carlo V che essendo uno degli uomini più potenti della terra, e certamente il più potente in Europa, non aveva ne il tempo, ne le ragioni per dare delle valutazioni socio-politiche sui Sardi, tra gli ultimi dei suoi sudditi. Secondo gli specialisti la paternità sarebbe da dare a due occupanti spagnoli di un certo rango. Martin Carrillo, ambasciatore spagnolo in Sardegna autore di un trattato socio-linguistico in cui menzionava queste tre parole riferite ai sardi come locutori della lingua spagnola. L’altro autore sarebbe l’Arcivescovo spagnolo di Cagliari Antonio Parragues de Castillejo che si sarebbe espresso usando queste parole qualche tempo dopo il suo arrivo nell’Isola.
Chiunque abbia scritto queste tre semplici parole in spagnolo non avrebbe certo pensato che sarebbero rimaste impresse nella coscienza collettiva dei sardi, creando dubbi esistenziali nel subcosciente di generazioni passate e presenti. Principalmente in relazione al loro equilibrio mentale e alle loro capacità di espressione collettiva e politica. Questi tre attributi acquistano intensità crescente dal primo, al secondo, il terzo essendo forse quello che espone a un maggior senso di colpa. Vediamole una per una.
1. Pocos. Questo è l’attributo più semplice. E nella valutazione originale dell’autore essere “pochi” non era necessariamente un fattore negativo. E non lo dovrebbe essere neppure oggi. Certo ci sono delle ragioni storiche che spiegano perché noi sardi siamo pochi, per i criteri moderni, in rapporto alla superficie in cui viviamo. Con 69 abitanti per km2 siamo la seconda regione meno popolato d’Italia. Essere più numerosi ci permetterebbe, forse, di essere più forti economicamente e sopratutto politicamente; un po’ come la Sicilia. Questa, quasi attaccata alla penisola, é meno isola della nostra e quindi molto più permeabile anche alla fertilizzazione dei movimenti di popolazione. Malta, isola molto più piccola della Sardegna e comunque indipendente, ha moltissimi abitanti per il suo territorio e molto pochi per uno stato indipendente. L’Islanda ha quasi lo stesso numero di abitanti di Malta ma è 326 volte più grande. La Namibia, esemplare stato africano, è grande quasi tre volte l’Italia con una popolazione totale leggermente inferiore a quella della sola Roma. Nel nostro caso essere pochi significa avere molto territorio alla disposizione. Questo territorio può essere utilizzato male e bene. In Sardegna è utilizzato male quando permettiamo che il 63% di tutte le servitù militari italiane siano imposte nella nostra isola, quando permettiamo che delle intere zone prima floride e intatte vengano avvelenate da una industrializzazione distruttiva e senza controlli. Bene quando permettiamo che le nostre spiagge, coste, colline e montagne siano aperti al viaggiatore e turista curioso, rispettoso delle nostre genti e delle nostre terre. All’inizio del terzo millennio, “pocos” implica un rischio a breve scadenza per la sopravvivenza della Sardegna stessa come la conosciamo. La globalizzazione senza controllo, gli interessi delle multinazionali e dei paesi più forti, le migrazioni dalle aree più povere economicamente e dalle zone di guerra che saranno sempre più intense, fanno della Sardegna poco popolata una ghiotta preda facile da prendere. Non solo; come se questo non bastasse la Sardegna è esattamente a metà strada tra la zona geografica più povera del pianeta al sud (cioè l’Africa) e la parte più ricca al nord (cioé l’Europa). Nel 2035 i Sardi saranno 1,4 milioni, gli Africani 1,7 miliardi. Se non interveniamo ora, tra 20 anni i nostri figli si ritroveranno servi nella loro terra; molto di più di quanto lo siano oggi. Interi popoli, stanno scomparendo. Come i Kurdi divisi tra Iran,Iraq, Siria e Turchia, come gli Ygur e i Tibetani, i territori dei quali sono diventati rispettivamente le frontiere occidentali e del sud della Cina, come i Palestinesi che hanno perso quasi tutte le loro terre occupate da Israele. Tutti questi popoli, ed altri ancora, stanno scomparendo senza che l’ONU e le cosiddette opinioni pubbliche si oppongano. Se noi sardi, “pocos”, non vogliamo scomparire dobbiamo fare tre cose: 1. preparare il ritorno in Sardegna di tutti quei sardi che hanno dovuto emigrare e che siano disposti a tornare; 2. aiutare anche finanziariamente le famiglie a fare figli, come fanno i governi francesi e tedeschi, giusto per menzionarne alcuni vicino a noi; 3. accettare e controllare una immigrazione e assimilazione principalmente di cittadini comunitari. Altrimenti, quando le forze globali e multinazionali già attive passeranno alla fase più incisiva (a cui lo stato italiano non potrà o non vorrà opporsi), i Sardi saranno risvegliati dal loro torpore passivo; ma sarà troppo tardi. Allora saremo estremamente “pocos” e insignificanti. I turisti potranno allora visitare la Sardegna, entrare nelle riserve in cui gli indigeni-sardi saranno stati parcheggiati, e farne le foto ricordo da riportare a casa. Come succede già in molti posti del globo, a partire dagli USA e dalla Cina. Questo dovrebbe essere di monito ai sardi. Non ci é rimasto molto più tempo.
2. Locos. Questo secondo attributo porta con se la relatività delle valutazioni. Nello spagnolo del XVI secolo, “locos” non significava, o non significava solamente, cretini o minorati mentali, come alcuni hanno proposto. Piuttosto, delle genti che si comportavano in maniera diversa, che erano difficilmente controllabili, che gli spagnoli non potevano capire, che avevano valori diversi; i loro propri valori. Valori che gli spagnoli non consideravano, comunque, molto efficaci visto che riuscivano a dominare con relativa facilità queste genti sarde. Nell’estensione del significato originale, “locos” con il tempo ha preso la connotazione di “incolti”, “quelli che non sanno”, “quelli che non hanno nessun potere”. Durante il periodo giudicale la Sardegna era parzialmente unita, o meno disunita, senza troppe guerre intestine, con una economia relativamente florida e con dei governi, stabili e equilibrati. Non meglio e non peggio di altre parti d’Europa. Benché al centro del Mediterraneo le poche vie di comunicazione ci legavano alla penisola italiana e a quelli che poi divennero i colonizzatori iberici. Anche perché al sud c’era la frontiera tra islam e cristianesimo con limitate possibilità di contato. Il fatto di essere una vera isola, difficile da raggiungere e da lasciare, ha formato una “mens sarda” che non é stata mai troppo esposta alle influenze e al pensiero degli altri, come succede regolarmente e più facilmente per le genti che vivono invece sui continenti aperti. Col tempo, i sardi sono stati obbligati a pensare e creare principalmente tra loro stessi, mantenendo una certa originalità di pensiero e di comportamento. Rivelandosi comunque capaci di organizzarsi in piccole comunità con i loro equilibri interni ed esterni. Il “locos” ha continuato a la sua evoluzione e da “diversi” cominciò a prendere una connotazione negativa, quella di inferiorità; che é poi rimasta. Su questo sentimento di inferiorità uno degli stereotipi che i Sardi volentieri raccontano su se stessi é legato all’apparente facilità con cui lo straniero in generale e il continentale italiano in particolare riescono ad influenzare i Sardi e spesso ad abusarne. Un sardo che fà o propone le stesse cose degli “stranieri”, il detto continua, raramente riesce a farsi accettare dai suoi. Vero, falso? Come dicono i buddisti dove comincia il falso finisce il vero e viceversa. Ma in questo c’é poca originalità e essere attirati da tutto quello che viene dal di fuori é tipico di tutte le comunità chiuse.
Attraverso il mondo, gli esempi di comunità relativamente chiuse sono tanti. All’inizio degli anni 90, quando lavoravo a Gerusalemme, il livello di conflittualità interna degli ebrei, incluso quella fisica tra gruppi politico-religiosi diversi era incredibilmente alta. Si tratta di una società particolarmente chiusa al mondo non-ebreo tanto da essere accusata da molti stessi ebrei di essere una setta più che una comunità. Ogni volta che però percepiscono un pericolo esterno hanno quasi sempre dimostrato la capacità di unirsi davanti al nemico comune. Anche se nella loro storia le eccezioni non mancano. All’inizio degli anni 2000 lavoravo nel nord del Congo, non lontano da delle comunità di pigmei. Un popolo che vive dentro la foresta opprimente e bassa che ha dato una forma quasi fisica a questi uomini piccoli e superiormente intelligenti nel loro ambiente che può essere mortale per chi non lo conosce. Anche loro sono capaci di battersi al coltello per una promessa di “matrimonio” non mantenuta, per un pezzo di maiale selvatico mal diviso. Ma quando gli uomini della savana tentano di tagliare un albero sacro o di cacciare nel loro territorio, i pigmei si uniscono per difendere il gruppo e i suoi interessi.Tenendo conto di proporzioni e contesti diversi (la permeabilità delle comunità sarde e ebree sono superiori a quelle pigmee), le comunità sarde, ebraiche e pigmee e tante altre hanno ciascuna i loro valori frutto di migliaia d’anni di adattamenti, spesso dolorosi. Tutte e tre hanno crescenti difficoltà a ritrovarsi in un mondo che cambia troppo in fretta e che non da tempo all’adattamento. Le sfide moderne esigono risposte che pochi sono capaci di dare.In Sardegna, quindi il tempo ha trasformato i “locos” in “maladattati”. E questo ci porta a esaminare il terzo elemento di valutazione: “mal unidos”.
3. Mal unidos. Tra i tre qualificativi questo sembra essere quello che più degli altri stimola il dibattito. Provoca la riflessione sulla capacità dei Sardi ad agire come gruppo, come collettività; alla fine come popolo e nazione. Uno dei tanti stereotipi sardi su loro stessi, che si riattaccherebbe a questa incapacità à fare gruppo e ad agire assieme in difesa dei propri interessi, è racchiuso nell’espressione “chentu concas chentu berritas”. Di fronte a un problema, a una scelta, cento sardi si comporterebbero in cento maniere diverse. Naturalmente non esistono statistiche sul senso di collettività di tutti i sardi di età adulta e non sapremo mai come reagirebbe ciascun sardo davanti ai problemi che riguardano tutta la popolazione sarda. Se paragonata al resto dell’Europa occidentale, dove si é trovata a far parte, la Sardegna é povera materialmente e anche culturalmente. Anche se tutto o quasi è relativo. E stata una terra sempre povera, non perché lo fosse naturalmente, ma perché gli abitanti accettavano di essere poveri; o ancor meglio non si procuravano le opportunità per non esserlo. La povertà, concetto relativo, costringeva le comunità a pensare a se stesse a soddisfare prima i loro bisogni primari e quelli della loro famiglia e dei loro gruppi. Non si andava più lontano della strada che un uomo poteva percorrere a piedi nell’arco di una giornata. E di strade ce n’erano molto poche. Il tempo ha inculcato nella comunità sarda questa visione limitata della sua realtà quotidiana. Al di la delle colline o dei monti, gli altri non erano forse nemici ma neppure amici. Quindi l’elemento socio-economico ha impedito la nascita di una coscienza del sentimento politico.
Mio cognato libanese, visitando un giorno la Sardegna, mi chiese se volessi sapere la differenza tra un contadino libanese e uno sardo. Rispondendogli positivamente, mi disse che quando un libanese vedeva uno straniero avvicinarsi al suo villaggio si chiedeva: “chi sarà mai, cosa farà, quante informazioni mi porterà da fuori, quante cose potrà insegnarmi, quanti affari potrò fare con lui”? Il sardo vedendo lo straniero avvicinarsi al suo paese si chiedeva: “chi sarà mai, cosa mai vorrà da me, mi vorrà portare via l’asino, importunerà la mia famiglia, mi ruberà il raccolto”? Uno vedeva nello straniero una opportunità, l’altro un pericolo. Un po’ l’eterna storia del bicchiere a metà vuoto o a metà pieno.
Ma la diffidenza, il sospetto e la paura dello straniero non sono caratteristiche riservati ai sardi. E al contrario una costante comune a tutte le comunità isolate degne di questo nome. Infatti i sardi potrebbero apparire, rispetto ad altri, come della gente tollerante, creativa e confidente in tutto e tutti. Verso la metà degli anni 90 lavoravo in Afghanistan, in preda alla guerra civile susseguente il ritiro sovietico. Fieri all’inverosimile e prigionieri delle loro montagne maestose, gli afghani di un versante si massacravano senza pietà con quelli dell’altro versante. Benché rispettato come rappresentante dell’ONU, quasi mai fui invitato in presenza di donne e raramente ebbi la sensazione che almeno i loro capi mi dicevano quello che pensavano; non avevano fiducia nello straniero. E non avevano fiducia neppure nei loro nemici fratelli afghani che accusavano delle peggiori malefatte. E questa attitudine la vidi anche in Medio Oriente e Africa e Estremo Oriente. Sospettare, accusare e anche demonizzare il prossimo é una delle attività favorite dell’uomo; di qualunque colore sia e in qualunque latitudine viva. E anche in questo i sardi non sono una eccezione. È chiaro che i sardi non potevano essere “unidos” perché semplicemente non sapevano che potevano esserci degli interessi per loro al di là del paese natio. Non tutti avevano la coscienza di essere uno stesso popolo che viveva nello stesso territorio e che aveva un proprio destino comune scelto liberamente. E naturalmente tutti gli invasori alternatisi nei secoli hanno diviso i sardi per meglio controllarli. Ma anche qui niente di originale. Tutte le potenze del passato hanno usato la stessa strategia, con la tattica principale di incaricare una élite, a cui si davano titoli e terre, per controllare e sfruttare il proprio popolo in nome del conquistatore. Quest’ultimo non doveva occuparsi troppo dell’amministrazione del territorio conquistato. Bastava che a scadenze regolari ne ricevesse i benefici. Nella storia recente della nostra isola, i piemontesi prima e, in maniera diversa la repubblica italiana dopo, hanno usato gli stessi metodi che oggi danno però l’impressione di aver finito il loro ciclo.
Per semplificare, fino a tre generazioni fà, i sardi si sentivano, in una certa maniera sardi. Riconoscevano la loro identità nel paese o centro in cui vivevano; dove la gente si conosceva tra loro. E un po’ più in la si riconosceva nel gruppo di paesi attorno. Oggi, il modernismo materiale, le strade, le scuole e la televisione hanno trasformato la sua identità. Almeno nei grandi centri urbani i sardi si sentono meno sardi, ma non son sicuri di essere italiani; almeno non nel senso storico essenziale. Ma tutti i sardi sembrano fieri di possedere un no so che di speciale che li renderebbe diversi dagli altri italiani. Ma tutti i sardi in una maniera o nell’altra, sono stati abbandonati in questo limbo senza sapere davvero chi sono.
Il ruolo di un governo “nazionale” (italiano) e locale (sardo) é quello di interpretare i problemi espressi dalla popolazione e risolverli. E anche se questi governi si dimostrassero incapaci di risolverli, il che è stato il caso dalla fine della seconda guerra mondiale, dovrebbero almeno assistere la popolazione perché risolva lei stessa questi problemi. Se non a che servono i governi? Certo la Sardegna soffre di grave problemi economici; ma questi problemi sono anche la conseguenza di una mancanza di unità. Lo stato ha diviso i sardi. Per essere uniti i sardi devono sentirsi far parte di un destino comune, cosa che il potere ha sempre scoraggiato. Ed é normale visto che il potere (centrale e locale) fa gli interessi suoi e non di quelli che rappresenta. Ma se é vero che ogni popolo ha il governo che si merita, se ne deve dedurre che i sardi hanno i governanti che si meritano: incompetenti, senza visione e spesso agli ordini di poteri per niente interessati al benessere dei sardi. E noi li lasciamo fare perché siamo come loro, visto che li abbiamo ripetutamente eletti nei decenni. Siamo pocos/pochi? E’ un fatto; e dipende da noi farne una forza o una debolezza. Solo noi, tutti noi, unendoci tutti senza eccezione, avremo in mano il nostro destino e potremo cambiarlo se davvero lo vogliamo. Siamo locos/speciali? No, non siamo più stupidi o più intelligenti di tanti altri popoli sparsi per il mondo. Si, siamo speciali perché la storia ci ha reso speciali. E di questa peculiarità “nazionale sarda” dobbiamo farne una forza che deve cementare il nostro futuro; sopratutto quello dei nostri figli. Siamo mal unidos? Ognuno di noi pensa ai propri piccoli interessi e siamo incapaci di unirci e difenderci e progredire come popolo e nazione? Si lo siamo. Siamo all’inizio del terzo millennio e solo una profonda riflessione collettiva su chi siamo e cosa vogliamo ci permetterà di unirci tutti, senza eccezione, per impedire che quelli che non amano la nostra terra finiscano di distruggerla. Per noi é troppo tardi; ma lo dobbiamo ai nostri figli.
Gian Franco, che passione la anima e che spessore ha lei! Complimenti.
Lo dobbiamo si nostri figli: questo è il motivo che deve spingere ad unirci, cercando di cambiare l’infausto futuro che altri ci hanno assegnato.
Spero che lei continui a pungolare tutti con la sua esperienza e capacità di prevedere cerri fenomeni che sono del tutto invisibili ai molti!
Grazie
L’elemento identitario più forte di un popolo e di un territorio è la lingua. Se ci troviamo fuori dalla Sardegna e sentiamo qualcuno parlare in sardo, ci sentiamo a casa. Esiste la tutela delle minoranze linguistiche, e qualche anno fa ho scoperto che alle altre regioni “tutelate” si è aggiunto anche il Piemonte. Mi ha colpito positivamente sentire alcuni infermieri di un ospedale piemontese parlare fra loro in piemontese, come sentire parlare in sardo – tra loro-medici di un ospedale di Cagliari. Nei nostri paesi si parla in.sardo forse perché resiste l’economia tradizionale o forse perché le comunità piccole conservano una familiarità simile a quella del passato.
Si moltiplicano nel corso dell’anno le manifestazioni legate alle tradizioni, figlie delle nostre radici. Penso ai riti della Settimana Santa, alla festa di Sant’.Antonio del fuoco o a quella di San Giovanni, legate al mondo agricolo oltre che alla religione, alla Corsa degli Scalzi. E penso alle feste laiche, come la Sartiglia, e a tutte le altre che sarebbe lungo elencare . L’organizzazione delle manifestazioni richiede mesi di preparazione, e questo è un elemento di aggregazione molto valido soprattutto nelle comunità piccole.
Certo, ci sono contaminazioni come nel caso di Halloween che ha sostituito le nostre tradizioni di Maria Pintaoru e di is doppiadoris, ma ci sono anche i corsi per imparare a fare il pane in casa, legati al recupero delle abilità del passato
È vero che i bambini difficilmente possono giocare per strada come una volta, purtroppo, ma in questo caso non so può tornare indietro.
Non c’è più l’uso di un’assistenza familiare o di una solidarietà di vicinato, ma si organizzano cooperative per l’assistenza agli anziani, se l’amministrazione comunale è sensibile e attiva.
C’è la tutela dei luoghi del cuore e dei luoghi con qualche tratto distintivo, come le sabbie al quarzo di.alcune nostre spiagge.
Credo che le piccole patrie ci saranno per molto tempo. Bisognerà solo essere prudenti e accorti nell’integrare i costumi degli altri e le modernità .
“E i nostri figli faranno quello che abbiamo.fatto noi: aggiungeranno qualcosa a quello che noi abbiamo fatto” (Giuseppe Dessi’- Eleonora d’Arborea)
la ringrazio Vale per l’apprezzamento a quanto da me postato… il pensiero l’ho talmente fatto mio perché mi ha tanto commosso quando il mio caro amico Gianni Deligia (ex funzionario ONU) me lo ha trasmesso e quindi ho pensato che fosse dovere mio diffondere quanto più possibile questi pensieri così veri e profondi, tanto da commuovermi, in occasione di questo blog di Anthony Muroni… grazie
Complimenti per il suo commento.
Grazie Gianfranco per queste riflessioni, nonchè consigli e, alla fine, stimoli: è vero, dovremmo essere ancora in tempo a salvare la nostra splendida Isola. Purchè si sia tutti, ma proprio tutti, uniti!