Intendiamoci subito.

Convogliare circa duecento amministratori locali (tra sindaci, assessori e consiglieri, secondo quanto dichiarato dagli organizzatori), assieme a qualche altro centinaio di persone a Nuraghe Losa, in una domenica mattina di un periodo ancora relativamente lontano dalle elezioni, è un successo politico. Chi lo nega, non fa un buon servizio alla verità e, di conseguenza, alla sua credibilità.

La domanda, detto questo, è: esiste uno spazio politico all’interno del quale questo consenso potrà essere capitalizzato a febbraio? E quali sono le reali possibilità che il Partito dei Sardi e Paolo Maninchedda potranno concretizzare? E come, queste possibilità, sono state rese esplicite attraverso i messaggi lanciati nell’assemblea di oggi?

Andiamo con ordine e partiamo, però, dalla fine. Al di là del lungo dibattito, dai contenuti più o meno scontati, cosa ha davvero detto il fondatore e segretario del partito popolar-indipendentista?

Anzitutto ha lanciato l’idea di primarie “nazionali” sarde da svolgersi alla fine di novembre.

Vorrei ripercorrere con voi questo passaggio, analizzandolo poi prendendo a prestito – da assoluto artigiano – le tecniche del filologo (cioè di colui che ama le parole e ha interesse a studiarle). Una specializzazione nella quale Paolo Maninchedda eccelle. Dunque, di conseguenza, possiamo desumere che non usi le parole a caso.

Stamattina ha detto così: Tutti sappiamo che chi fa politica, come chi vive, sbaglia. La Sardegna deve imparare ad accantonare la tecnica del rinfaccio e dell’annientamento dell’avversario a fini elettorali”. (1)
Se si parte dal presupposto che chi decide sbaglia di più di chi non fa nulla, si deve arrivare a comprendere che l’errore di parte non può essere il motivo dell’assenza di dialogo tra le parti. (2)
Noi, credo lo si sia capito, proponiamo un grande sovvertimento delle cose consolidate in Sardegna.
Serve un evento storico inatteso, non servono i veti incrociati, le divisioni a priori.
Serve anche un metodo per ritrovarsi tutti insieme.
Serve un’esperienza di unità ma non di uniformità, un ‘prima nazionale’.
Serve istituzionalizzare l’unità e valorizzare la competizione delle differenze possibili. (3)
Nessun candidato alla presidenza imposto da nessuno. Scegliamolo tutti insieme, ma dentro una cornice che ci unisca. Un candidato che si autocandidi, fa un esercizio di narcisismo. Un candidato che venga scelto dalle segreterie dei partiti, svela di essere subordinato alle oligarchie di partito. Un candidato scelto dal popolo, rappresenta il popolo. (4)
Noi proponiamo che la Sardegna organizzi per fine novembre le primarie nazionali sarde a cui può partecipare chiunque dica solo una cosa: la Sardegna è una nazione, una comunità di valori e di interessi nazionali che vuole i poteri necessari per difenderli e interpretarli”. (5)

Allora, ci proviamo.

  1. Tutti possiamo aver sbagliato (anche io, Paolo Maninchedda). Mettiamo da parte le divisioni del passato e pensiamo al futuro.
  2. Chi fa sbaglia, non è un motivo per non parlarsi.
  3. Serve una novità, una cosa mai successa prima.
  4. Il candidato a presidente lo devono scegliere i cittadini.
  5. Servono le primarie nazionali, perché la Sardegna è una nazione.

Cinque concetti molto chiari, mi pare. Mancano, però, alcuni dettagli. Perché mai come in questo caso credo che occorra interrogarsi non tanto (o non solo) sulle parole pronunciate, quanto su quelle omesse.

Quali sardi saranno chiamati a votare per queste primarie “nazionali”? Non è chiaro, non è esplicito. Il sindaco di Bauladu Davide Corriga ci ha visto un esplicito invito a tutte le forze identitarie e indipendentiste a fare fronte unico? E’ plausibile? Cioè, è pensabile che si usi un sottointeso per superare anni di feroci polemiche, proponendo un accordo politico-programmatico che dovrebbe essere basato solo sul comune riconoscimento del fatto che la Sardegna è una nazione?

Con tutta sincerità, ho troppa stima per l’intelligenza politica di Paolo Maninchedda per credere che si sia trattato di questo. Visto che il dialogo tra il PdS e la quasi totalità dei partiti del mondo identitario non solo non è mai decollato, ma non è proprio partito.

No, Maninchedda (che è un campione di pragmatismo e non un don Chisciotte pronto a sfidare i mulini a vento con una lancia spuntata) pensa in grande e pensa a ben altro.

Il suo invito è rivolto a tutti i sardi. O, meglio, a tutti i sardi che non hanno già deciso di votare per Cinque Stelle, Lega/Psd’Az, Forza Italia e compagnia cantante.

E lo immagina, quell’invito, con l’aiuto dei sindaci e in un mondo ideale (quel che questo mondo non è), rivolto a uno zoccolo duro di sardi capaci di incoronarlo non tanto come quarto incomodo in queste prossime elezioni, quanto come detentore di un tesoretto capace di spostare gli equilibri dalla parte del centrodestra o del centrosinistra.

Tutto il resto del discorso, apprezzabile nella sua pacatezza e nella precisione delle questioni enunciate, è funzionale a quell’obiettivo “alto”. Una sorta di All-In con il quale si gioca la stessa permanenza in vita del PdS e del suo sistema di consenso, esteso soprattutto nella Sardegna centrale. Un consenso che ha bisogno di confrontarsi con una continua prova di governo, a livello regionale.

Dunque, la rivendicazione delle battaglie portate a casa (l’agenzia sarda delle entrate, i lavori pubblici) è valorizzata ben più del decisivo sostegno a Pigliaru/Paci nei momenti più delicati di una legislatura che ha fatto crollare il consenso del centrosinistra ai minimi storici. Maninchedda ha riservato blande tirate d’orecchie all’una e all’altra coalizione italiana in più di un passaggio, ma in una parte del discorso ha analiticamente enumerato le cose che lo dividono dall’attuale centrosinistra (“A Sinistra: la sinistra italiana ha preteso dai sardi di sinistra che si schierassero a favore dei referendum istituzionali di Renzi, che avrebbero indebolito i già deboli poteri dell’autonomia. La sinistra italiana ha costretto al sinistra sarda al silenzio quando Renzi prima promise a Paci di non applicare nuovi accantonamenti e poi, il giorno dopo, li applicò di nuovo. La sinistra italiana ha difeso e coperto la protervia militaresca della ministra Pinotti, quella che in vacanza faceva le ricognizioni in elicottero, che ha fatto spallucce dopo le gravi e importanti risultanze sui poligoni sardi della commissione Scanu sull’Uranio impoverito. La sinistra non è riuscita a ricordare al ministro degli esteri del Lussemburgo che i nostri emigrati lavoravano, non chiedevano l’elemosina o la grazia. Lavoravano e venivano pagati. Punto. Ce lo ha insegnato il socialismo a non considerare il lavoro un favore. È un certo italianismo della sinistra che ha fatto passare come acqua fresca l’importante documento del Pd della Gallura che spingeva verso la costituzione di una sinistra sarda. Grave errore, perché se la Sinistra italiana non ha più l’entusiasmo che anima chi vuole realizzare un riscatto, qui in Sardegna il nostro riscatto è tutto da fare”), mentre manca un analogo e analitico passaggio che riguardi il centrodestra.

Significa che il PdS si lascia aperta una finestra per cercare di riprendere il dialogo anche con l’attuale opposizione? Allo stato sarebbe forse azzardato dirlo. Ma, in politica (e con questi protagonisti), mai dire mai.

Questo è quanto. Riepilogando, e scusandomi per l’inusuale lunghezza del ragionamento: un grande successo di adesioni, una assemblea pacata con un indirizzo che è parso fermo, un invito generale a superare le divisioni tra sardi e l’idea di primarie “nazionali” capaci di creare un fronte di sardi da contrapporre ai partiti italiani che non volessero, magari mettendosi di lato, far parte di questa convergenza.

Con, sullo sfondo, l’idea (forse un po’ eccessiva) di un Maninchedda come unico argine al temuto dilagare del Movimento Cinque Stelle. Quest’ultima l’ho resa forse un po’ alla grossa, ma il mio (ex?) amico filologo forse mi perdonerà.