Daniela Freschi, architetto con base a Sassari, è responsabile del dipartimento Ambiente e Territorio per la sezione sarda di Sinistra Italiana.

Con lei parliamo della legge urbanistica che sarà presto all’esame dell’aula del Consiglio regionale.

Lei fa parte dell’ampio fronte che si contrappone alla legge urbanistica Pigliaru-Erriu. Perché?

C’è un che di simbolico in quel disegno di legge: simbolico perché, dopo anni di legislazione e cultura urbanistica che hanno man mano affinato la sensibilità su quanto il paesaggio abbia valore e sul perchè rappresenti un bene comune inestimabile, siamo tornati indietro, con un unico rocambolesco balzo, che ha messo d’accordo chi quelle norme non le ha digerite mai, e chi ora non se le ritrova fra i suoi valori politici.

Esiste, dunque, un disegno “restauratore”?

C’è poco da girarci intorno: quel disegno di legge è pronto lì, ed è stato scritto, con un’immagine che non è quella che la Repubblica Italiana riconosce al paeaggio sardo, né quella che la maggior parte dei sardi ha scolpita nel cuore: quella del paeaggio dell’intera isola, e soprattutto costiero, come un bene comune irriproducibile, non compensabile, limitato: un bene in sé, ben oltre valutazioni economiche di corto respiro, un bene comune da tutelare e preservare.

Dunque, alla base, non c’è un vero intento pianificatorio ma altre coordinate?

Oltre le sbandierate ricadute economiche, di un ipotetico allungamento delle stagioni turistiche e altre magnifiche e progressive sorti, niente di queste promesse andrà ad intaccare la mal nascosta convinzione che il paesaggio, per chi in Giunta Regionale sostiene la legge, sia soprattutto un bene economico. Ma di quale economia si parla? Di quella che ruota intorno a una ricettività alberghiera di lusso che sbarca in Sardegna solo quindici giorni all’anno? O di quella che, sensibile alle bellezze dell’interno, dovrebbe invece essere incentivata e promossa, capace di sostenere chi gira per i paesi dell’interno carichi di storia e d’identità, dall’inizio della primavera all’autunno inoltrato, che attraversa valli incontaminate in bicicletta, frequenta alberghi diffusi, scala montagne, assaggia vini e mieli di corbezzolo? A chi si vuole rivolgere questo disegno di legge che così tanto vuole incidere sul nostro territorio, con logiche urbanistiche e una concezione del progresso logore di vent’anni: ai sardi, che devono esserne custodi e fruitori, o in realtà a investitori venuti da oltre il mare come moderni saraceni, sensibili solo ad una terrazza – basta che sia proprio sulla spiaggia – e disinteressati a tutto quanto di altro e straordinario l’Isola può offrire, gonfi di denaro in tasca, tanto quanto basta per comprare quello che a casa loro non c’è più, o che forse più probabilmente non c’è mai stato?

Eppure Pigliaru parla di dialogo in corso.

La giunta regionale si barcamena, cerca di conciliare l’impossibile, usa parole abusate e vaghe come sostenibilità e valorizzazione, sviluppo e tutela, e lo fa con attività spasmodica giusto in tempo prima di concludere il mandato; taccia furbescamente di settarismo e ideologismo chi pone questi elementi evidenti sul piatto: gioco facile, tanto che che ne accusa persino la Soprintendenza, cioè niente meno che il Ministero per i beni Culturali, che svolge il suo alto mestiere nell’interesse ed in nome di tutti. E ne e sa qualcosa anche la Consevatoria della Coste, liquidata per il solito intento razionalizzatore, che colpisce guarda caso sempre chi i controlli li esercita.

È possibile che il quadro sia solo a tinte fosche?

Tutto sembra consumarsi sulla pelle del bene che più dovrebbe tutelare, su quel bene che non dovrebbe essere oggetto di negoziazione, né per l’attuale società sarda né per le generazioni future, – tantomeno per la sua Giunta – fingendo di non sapere quello che sembra ovvio: che quando tutto sarà stato costruito, “valorizzato”, cioè in realtà sfruttato, non rimarrà più niente, e quel tipo di turismo oggi così vezzeggiato andrà semplicemente da un’altra parte, magari ancora più povera e sprovveduta, lasciando a noi gli avanzi di un modello di sviluppo senza futuro.

Dunque, questo dialogo non serve?

Può bastare una consultazione pubblica, seppur sempre necessaria ma condotta maldestramente, dagli esiti incerti e non verificabili, a convincerci che questo è l’unico futuro possibile per la Sardegna? Quello cioè di un’Isola pensata e resa di fatto spopolata al centro, quasi immaginata come un atollo caraibico nella mente di troppi, abitata sulle coste da villaggi fantasma vivi solo d’estate, che si vendono al miglior offerente, per una terrazza sul mare in più, una camera più grande, tanto che importa, se non c’è alternativa?

Qual è l’alternativa?

Sinistra Italiana ha un ‘idea di Sardegna diversa. Più inclusiva ed includente, più densa di significato. Una Sardegna che pone con forza al centro la questione ambientale e quella sociale, strettamente connesse. Che crede che l’offerta turistica vada migliorata in termini qualitativi, certo, ma rivolta soprattutto a un turismo leggero, di basso impatto, ambientalmente colto, alla ricerca del vero lusso, sempre più raro: quello dei paesaggi incontaminati, della bellezza che era e che dovrà essere anche in futuro; che crede le stagioni turistiche si allunghino con una seria politica dei trasporti, non con un incremento volumetrico delle seconde case, che porta solo eccesso di offerta, consumo di suolo e irriconoscibilità di paesaggio.

Cosa proponete per uscire da questo stallo?

Ci sono alcuni articoli (il 31 e il 43, oltre a quello 4 della tabella A4 sono da stralciare, non da discutere. Nessuna apertura verso chi scrive decreti legge urbanistici in spregio alle promesse elettorali a suo tempo fatte ed ora rimangiate per motivi di opportunità; per chi ancora sostiene che sia possibile bypassare le norme in nome di “programmi e progetti ecosostenibili di grande interesse sociale ed economico”, una descrizione talmente generica capace di rendere possibile quasiasi nefandezza paesaggistica, di far considerare eversivo di ogni atto di pianificazione paesaggistica ed urbanistica. Le chiamino invece con il loro nome: varianti discrezionali a carattere permanente: questo è l’articolo 43.

È per questo che lo giudicate inaccettabile?

Lo è per chi vuole e pretende norme certe e uguali per tutti, per chi non vuole assistere al suicidio della buona pianificazione. Nessuna apertura per chi prevede la violazione del vincolo di inedificabilità nella fascia costiera ( articoli 19 e 20 delle Norme Tecniche di Attuazione del Por), principio già espresso nella Legge Regionale del 1989, ribadito dalla giurisprudenza e da numerose Sentenze del Consiglio di Stato e della Corte Costituzionale; per questo nessun aumento volumetrico è ammissibile, neanche per attività turistico ricettive, né volumi aggiunti né con unità immobiliari separate.

Non se ne può proprio discutere?

Quelli che ho elencato sono i punti del disegno di legge su cui non si può trovare accordo. Sono punti non negoziabili. Il dibattito pubblico è certo uno strumento utile, ma non può essere usato in maniera strumentale né essere sostitutivo di una visione di lungo periodo. È necessaria una sensibilità ambientale consona ai tempi così come politiche e scelte territoriali buone per tutti, residenti e turisti, che sono e devono rimanere naturalmente i benvenuti, ma all’interno di regole certe e sintonizzate con la contemporaneità: perchè è evidente a tutti che 50% delle coste sarde edificate è già molto più di quanto avremmo dovuto consentire. Su tutto il resto si può discutere, a patto che il Ppr venga esteso alle zone interne, finalmente applicato in tutta la sua versatilità e capacità di visione e di guida verso uno sviluppo armonico della socirtà sarda col suo territorio.
La vera sfida è quindi un’altra: sottrarre le bellezze che restano a chi se ne vuole appropriare, fornendo molto poco in cambio; la sfida è creare un ambiente inclusivo ed aperto in cui tutti possano godere delle bellezze che appartengono naturalmente non solo ai sardi, ma a tutti quelli che le rispettano e le ammirano così come ancora sono. La sfida è uscire dalla schiavitù del pensiero economico dominante, del fatto che tutto abbia un prezzo, che ci sano sempre dei sacrifici collettivi da compiere in nome di interessi di pochi.