Vada come deve andare la questione dell’indipendenza catalana, si è già prodotto un grosso danno. E’ un disastro per la democrazia, per le speranze di progresso, per le illusioni di tutta una generazione che un po’, magari con prudenza, all’Europa ci aveva creduto.

Il peggio non è che la Catalogna non diventi indipendente o che la Spagna abbia rivelato una sua identità autoritaria, ma che le classi dirigenti europee abbiano, tutte, chiuso la porta in faccia al principio di autodeterminazione dei popoli e alla possibilità di esprimersi su una mera idea di cambiamento della struttura dello stato.

La mossa tentata ieri dal presidente della Generalitat Carles Puigdemont, cioè quella di dichiarare formalmente l’indipendenza, ma di sospenderla in attesa di una mediazione autorevole, va in questa direzione.

Dalla bibliografia giuridica internazionale si evince che il principio di autodeterminazione dei popoli è accettato in alcuni casi e in altri no. Si fa valere per le colonie, per i regimi razzisti e per gli stati invasi da una potenza straniera. Non si applica per le cosiddette “autodeterminazioni interne”: i principi del diritto internazionali si conformano alla necessità di salvaguardare gli stati perché, questa la ragione, se non si garantisce la stabilità statale il mondo può entrare in una fase di confusione e caos. Ragione anche in buona fede.

La legislazione internazionale e europea (l’ONU si differenzia un poco e accentua il diritto dei popoli) ha sostanzialmente ridotto le nazioni senza stato a “minoranze”, con un processo di declassificazione che significa che le specificità di lingua, cultura, società, religione, economia si possono e si devono tutelare, ma dentro la cornice dello stato di appartenenza. Si può e si deve concedere un alto livello di autogoverno (decide sempre lo stato), ma quello all’indipendenza non è un diritto.

Si può obiettare che ogni popolo ha diritto all’autodeterminazione, come lascerebbe intendere l’ONU, ma in nessun trattato internazionale è definito cosa si intende per “popolo” e quindi non c’è applicazione giuridica concreta della norma.
L’unica possibilità di copertura giuridica si si può rilevare nel caso di una separazione “pactada”, concordata, frutto dell’accordo tra stato originario e nuova comunità.

La Suprema corte canadese per il Quebec aveva ratificato negli anni novanta questa possibilità, mentre proprio questa è stata la via seguita dal Regno Unito nel 2014 per la Scozia. In entrambi i referendum l’opzione indipendentistica non si è imposta.

Puigdemont e la classe politica catalana sanno che possono giocare la carta della politica. Ma il regime spagnolo non accetterà a nessun titolo di consentire alla Catalogna di staccarsi. La palla e all’UE, più che a Rajoy, e ad altre autorità internazionali, altrimenti si rischia un brutto finale a una bella storia.

C’è un grande problema culturale, pre politico.
Il messaggio che si è prodotto in questi giorni è chiaro. L’Unione Europea è una confederazione di stati che si reggono l’uno con l’altro e che non permettono cambi di frontiere reciproci. Anche il sacrosanto principio democratico è limitato dalla necessità giuridica di salvaguardare la stabilità statale. Il vulnus alla fiducia dei cittadini nelle classi dirigenti europee è stato proprio qui.

Come è stato possibile che nell’Europa di oggi, nel 2017, la metà accertata e più di una comunità voglia votare sul suo destino e questo venga considerato un esercizio contro la democrazia? Come si può permettere che le forze di polizia vengano inviate a malmenare liberi cittadini che esercitano il diritto di voto? Come si può solo pensare, di fronte a una dichiarazione di indipendenza, di esercitare la forza? E’ chiaro che siamo davanti a un corto circuito che rischia di azzerare lo stesso concetto di Europa unita e democratica.

Anche perché i confini di uno stato non sono sacri e inviolabili. La liquidità della società dov’è? O vale solo quando conviene? La forma stato è solo un contratto sociale che serve a vivere bene quando i cittadini vi aderiscono. E se non va bene si cambia.

Col voto. Il principio democratico quello si che è assoluto: non si può vietare a un popolo di esprimere la sua volontà. Quando si fa così, è la spia che molte cose non vanno e che si mette in pericolo il fondamento culturale stesso della civiltà europea e occidentale: il diritto dei cittadini ad esprimersi paritariamente e liberamente.

E’ la fine delle illusioni per noi “europeisti”. Ma anche l’inizio di una nuova sfida, di una nuova fase per capire come possiamo difendere meglio e promuovere le nostre identità collettive. Le nostre piccoli nazioni, ricchezza dell’Europa.