Gli eventi del fine settimana in Catalogna hanno messo in evidenza per molti verità che per noi pochi appassionati erano scontate. La grande forza del popolo catalano è fondata sopra un’identità consolidata da una lingua comune e da una memoria storica condivisa. L’istruzione prolungata fornita da scuole e università dal 1978 a oggi, ha creato, su queste due componenti, una coscienza nazionale cristallina in gran parte della popolazione.

L’esempio delle classi dirigenti e delle generazioni precedenti (sempre ribelli e sempre eroiche, basta pensare a a Luis Companys o Francesc Macià negli anni Trenta del secolo scorso), con l’aiuto di un’economia tra le più vivaci in Europa, ha scaturito le condizioni per la formazione di un movimento sovranista forte e consapevole che punta all’autodeterminazione.

E’ chiaro che, se l’economia fa andare veloci i treni sovranisti, il contenuto dei vagoni è la nazionalità catalana che con coscienza e lingua comune, si presenta pronta all’appuntamento con la storia.

Anche i commentatori politici italiani più ricettivi, in queste giornate, impressionati dall’unità del popolo catalano in occasione della repressione spagnolista del referendum, hanno ammesso che, come ha detto anche Mario Sechi, ex direttore dell’Unione Sarda, nel salotto televisico di Chicco Mentana, quella catalana non è una semplice questione di tasse mal distribuite o di economia leghista, ma è una questione di “identità”. Dunque, la richiesta di indipendenza può essere riconosciuta quando è una questione meramente nazionale, non economica.

La pretesa di una nazionalità di farsi stato, deve essere dunque fondata su un’identità culturale e linguistica forte, altrimenti non ha credibilità in sede internazionale e neanche a casa sua. La Padania non poteva vantare questi valori ed è stata archiviata come razzismo interno italiano. La Baviera è molto forte dal punto di vista economico, ma non per questo si sente una nazione. Gli italiani purtroppo hanno difficoltà a capire la questione delle nazionalità senza stato perché non riescono a uscire dal modello del secessionismo fiscale e razzista della Lega, che non ha nulla a che vedere con le nazionalità storiche europee, delle quali invece fanno parte la Sardegna, il Sud Tirolo e il Friuli. Il pregiudizio si mescola all’ignoranza.

Purtroppo, come hanno rimarcato altri commentatori prima di me, il movimento sardo per l’autodeterminazione (infilando in questa categoria tutte le declinazioni dagli autonomisti agli indipendentisti comprese le sfumature intermedie) ha corso il rischio in questi anni di conformarsi a una mentalità italianeggiante del fare politica.

Una delle conseguenze è stata quella di tradire il pensiero del maestro Simon Mossa (che aveva ben chiaro il livello della lingua e della coscienza storica di nazione), e di farsi trascinare in una spirale di inquadramento tutto economico della questione sarda. Che a pensarci bene è proprio quella del dominatore: “il ritardo di sviluppo”.

Probabilmente questo è capitato, oltre che per le debolezze e le responsabilità del movimento linguistico e culturale (non si è stati all’altezza storicamente, ma questo è un altro discorso), anche per un processo chiaro e simbiotico dell’attività della cultura egemone che ha portato i dominati a misurare se stessi con lo sguardo superbo, ma affascinante del dominatore. Come ho già scritto in una mia pubblicazione di qualche anno fa, parafrasando le idee di Edward Said, si è verificato che nei paesi “orientalizzati” dallo sguardo occidentale, i sottomessi si formano, si “vedono” e si riconoscono esattamente nel modo in cui desiderano quelli che li soggiogano.

Così, secondo la vulgata italiana, i sardi si vedono “normalmente” divisi, un po’ grezzi, di bassa statura, poco dotati di spirito imprenditoriale e non adatti a mantenersi con le proprie risorse perché sono “in ritardo di sviluppo e con il gap dell’insularità”. Inoltre, non riescono a vedersi come una nazione, perché l’unica nazione è l’Italia e se uno non è simile all’Italia non può essere nazione. E anche, in conclusione, non può e non deve parlare la propria lingua, perché c’è l’italiano, lingua che ha unificato Regno e Repubblica. Perché l’Italia esiste, mentre il sardo è un dialetto (plurale) che non va bene. Il cittadino sardo deve parlare l’italiano con qualche venatura di accento sardo. Cosi come nei personaggi stereotipati dei film.

Ricorderò tutta la vita quando, leggendo le opere di Said, sono saltato sulla sedia quando ho letto che, in realtà, uno degli strumenti più potenti dell’Occidente coloniale contro gli orientali furono le cattedre di filologia. Accidenti, avevo pensato, è cosi anche in Sardegna.

Visto che la lingua propria della Sardegna è uno dei caratteri fondamentali della diversità nazionale sarda, “casualmente” il pensiero egemonico che si è imposto nelle nostre università è proprio quello collegato a un’idea di lingua che non deve e non può essere normale e nazionale. In sostanza una lingua arcaica, vicina al latino in senso negativo, mancante di terminologia moderna, legata alla ruralità e al passatismo, divisa in due semi-lingue definite cagliaritano-montagnino e dopo campidanese e logudorese. Per non perderci nelle altre classificazioni dialettali nelle quali i dialetti (che sono normali in ogni lingua) sono definiti in maniera mimetica e pseudo-tecnica “varianti”, lasciando credere alla massa popolare (e anche agli indipendentisti poco ricettivi) che ognuna di esse è una “lingua” e merita addirittura uno standard. E così anche “su biddaresu” di ognuno può essere ufficiale.

Tutto questo pasticcio metodologico e politico converge a lasciare la lingua della cultura egemone, l’italiano, come unica lingua ufficiale.

Questa reiterata educazione alla divisione linguistica perseguita dalle cattedre filologiche degli atenei di Sassari e Cagliari per decenni, ha negli anni (disin)formato e confuso, oltre a una buona parte del ceto medio istruito, gli esponenti semi-colti del movimento linguistico mettendoli fuori dalla realtà pragmatica delle altre nazionalità linguistiche europee. Ognuno ha la sua proposta, ognuno pensa di essere Pompeu Fabra, e si arriva all’estremo di proporre ufficiali anche gli idioletti interni alle famiglie.

C’è voluta la competenza di Michel Contini dell’università di Grenoble che, con i suoi studi degli Anni Ottanta del secolo scorso, ha riformulato l’ipotesi scientifica del continuum sostanziale dei dialetti che formano un gruppo linguistico unitario e differenziato dagli altri (con le minoranze interne ben individuate in catalani, liguri, galluresi e sassaresi). Linea questa che è stata prima ignorata e poi combattuta dalle due università con atteggiamenti diversi: più di petto da Sassari, con più savoir faire da Cagliari, ma sempre nell’intento di dividere.

L’approvazione del documento della Limba Sarda Comuna nel 2006 ha di fatto sconfessato le “verità” accademiche. La LSC consente al sardo di esistere e alla nazione sarda di sostenere che ha finalmente una lingua ufficiale e dunque essa rappresenta un fronte (anche se non perfetto) da difendere sempre per una ragione squisitamente politica, fino a quando non si trovano soluzioni migliori. Va messo in conto che l’esercito dei filologi e dei linguisti accademici è sempre pronto (usando anche esponenti deboli e folklorizzati del movimento linguistico) per cancellarla, magari con la scusa di migliorarla. E infatti la comoda figura dell’emendatore di norme, del miglioratore, del mediatore moderato è molto comune, ma sconfina spesso nell’opportunismo più becero.

Invece, ciò che il caso catalano insegna (anche ai riottosi indipendentisti italianisti) è che la lingua comune è fondamentale. Ed necessario difenderla e normalizzarla proprio perché organizza un pensiero comune nazionale.

Il dato politico è però che la scuola filologica e accademica sarda (sostanzialmente strutturata dentro l’italianistica), a causa di questa idea di sardo che ha imposto alla società, è oggi ed è stata una delle punte più avanzate della colonizzazione culturale della Sardegna, facendo in modo che uno dei caratteri potenzialmente più forti dell’identità (e delprogetto politico sovranista) sia venuto a mancare in questi anni e non abbia costituito un punto di forza per rinsaldare la rinascenza de popolo sardo.

Non è un caso se dalle nostre parti è così difficile affermare l’idea di una lingua nazionale sarda come quella catalana del Principat: si tratta in realtà del frutto del lavoro pervicace e continuo CONTRO di questi studiosi e docenti che hanno diffuso nella popolazione, con la scusa di difendere il sardo da noi normalizzatori-inquinatori, i pregiudizi coloniali più beceri per la nostra lingua. I media e le scuole hanno amplificato questi concetti autocoloniali e siamo arrivati al presente nel quale, ciò che in tutte le nazionalità, compresa la Catalogna, si è fatto, da noi sembra impossibile.

Negli ultimi anni abbiamo notato che l’accademia ha svolto una funzione di supplenza della politica nel Governo Regionale. Ritroviamo anche filologi, nati e cresciuti in questa scuola autocoloniale, che, dopo aver navigato in molti partiti italianisti e no, hanno trovato approdo nel sistema dei partiti sovranisti e indipendentisti e si propongono come leaders di questo mondo.

Ma la propostra non sta in piedi. Perché non c’è nessuna rivisitazione dell’ideologia politico-linguistica che ha provocato la formazione antisarda della gente. Infatti si propone una specie di indipendentismo italianista che non ha niente di “nazionale” sardo. E’ una proposta tutta dentro il rivendicazionismo economicista senza nessun senso di identità nazionale. La prassi dovrebbe essere quella di creare un’alleanza tra élites sarde dell’establishment per ottenere da Roma nuovi poteri che permettano di agire la leva fiscale e quindi produrre ricchezza nuova che sia utile ai sardi per rafforzare l’indipendenza (e ai gruppi dirigenti per garantirsi ancora una rendita).

E’ una proposta politica che va verso un fallimento sicuro perché le sue basi culturali non sono sarde, ma italianiste. E quindi la direzione non è quella identitària.

Nel frasario sottostante non c’è l’idea del popolo sardo, ma solo di dirigenti di spicco che si alleano per operare un’autodeterminazione delle élites con concessioni di autonomia fiscale per poter conseguire una Sardegna più autonoma, ma sempre assistita e che parli e si senta italiana. Una proposta che in sede internazionale e italiana non passera mai, per il solo fatto che è di specie “leghista” e fiscalista. Un leghismo al contrario, diciamo. Senza anima nazionale.

Del resto se le nazioni sono create in larga parte (non solo) dalle lingue: le posizioni dei filologi governativi in questi anni sono state chiare, rivelatrici e alla luce del sole. O di sardo non se parla mai, o se ne parla per delegittimarlo e lasciarlo a livello di oggetto di studio o di colore folk.

I fatti. Quando negli anni scorsi c’è stata la famosa polemica con l’università di Sassari che voleva insegnare il sardo in italiano, curiosamente il blog di un filologo accademico dava spazio a critiche e attacchi contro la politica dell’ufficio regionale e contro la limba sarda comuna. Quando Pigliaru ha presentato il programma elettorale, appoggiato dalla filologia “sovranista”, c’era scritto che si promuovevane “le varianti”, non la lingua nazionale. Quando si è deciso di distruggere il servizio e la politica linguistica nel 2014 nessuna parola pubblica di difesa. Quando è stata pubblicata una cronaca libera di un convegno del partito guidato dal filologo sovranista e si è posto in evidenza il fatto che non parlasse mai della lingua sarda, si è risposto che il sardo era una fatto privato e che la scelta fosse quella di non mischiare la professione con la politica (sic).

Mai in questi anni di impegno politico una parola a favore della lingua nazionale, molte a favore dell’università e degli intellettuali anti lingua nazionale. La proposta di partito sulla Costituzione sarda si è fata tradurre in alcuni dialetti e non in una limba nazionale. L’altro giorno, a Siamaggiore, la dichiarazione che “noi sardi abbiamo parlato sempre molte lingue e ci siamo capiti” che altro non è che la riproposizione del “discorso” accademico del multilinguismo storico sardo che serve a negare la necessità di una lingua nazionale.

Ripeto, questo pensiero è legittimo e anche comune in Sardegna, ma è compatibile con il ruolo di leader indipendentista? Di leader di una nazione che oggi è disarticolata e che deve però trovare la sua strada in Europa? O conduce, questa proposta elitaria e economicista, direttamente, verso una proposta di italianismo politico travestito da sovranismo che danneggia la rinascita della Sardegna e che punta a riciclare assetti politici tradizionali?

Del resto, i risultati dell’alleanza con Pigliaru sono davanti a gli occhi di tutti e non tocca a me giudicarli adesso.

Non si sporchi il dibattito per favore con obiezioni fuori luogo. La questione non è che da domani il sardo è obbligatorio per tutti e chi non lo conosce non è un vero sardo. No. Se uno ha difficoltà parli e scriva pure in italiano. Il fatto politico è favorire il processo di normalizzazione del sardo, cercare di usarlo, far lavorare i professionisti retribuiti. Persuadere l’università a dare una mano, non a ostacolare. Dedicare allo studio del sardo almeno lo stesso tempo che si dedica all’inglese.

Chi è contro ontologicamente all’idea di una lingua comune nazionale non riuscirà mai a far assomigliare il nostro movimento a quello catalano. In mancanza di chiarimenti e cambi di marcia, sembra che l’opinione non possa che essere questa, ma poi ognuno si può fare anche la sua.

(nella foto Pompeu Fabra, padre della lingua comune catalana)