Cosa raccontano queste due foto?

Tantissime cose. La prima dell’animo dell’uomo in divisa. Moltissimo del pianto della donna. Troppo della tragedia che il mondo si vede scorrere sotto gli occhi nella totale indifferenza, come si trattasse di un film.

Racconta di un dovere da compiere, di ordini da eseguire e del travaglio interiore che quegli stessi ordini scatenano. Evoca il mito di Antigone, disputata fra il dovere imposto dalla legge civica e quello preteso dalla legge naturale, sospesa fra cultura e Natura.

Icasticamente, ci dice della misteriosa insondabile profondità dell’animo umano, celebrando in un fotogramma l’antico ammonimento dell’oscuro Eraclito: «per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo lógos».

La foto immortala un’eccedenza, quella dell’anima, che rifugge l’imperio dell’intelletto, sottraendovisi in un gesto naturale e delicato, direi umano, qual è una carezza. Coscienza ed Anima che si disputano l’agire dell’uomo. Dove l’una esige il rispetto di ordini perentori e tassativi, che non guardino oltre la loro precisa esecuzione; l’altra si sporge ad osservare proprio quell’oltre ricusato dalla Coscienza, rivelandole il suo stesso dolore, colto negli occhi di un’altra persona. C’è, in quel semplice gesto, il riconoscimento della disperazione, come in un gioco di specchi, ove il riflesso è icona di un’umanità che soffre. È raffigurata la peculiarità e la specificità umana, espressione di una lacerazione profonda fra Coscienza ed Anima, fra diritto ed ethos, cultura e Natura: il polemos che distorcendo l’io lo espone all’insolenza della perenne tragedia dell’esistere.

Racconta anche il dolore della donna. Un’eritrea richiedente asilo. Osservo il suo volto trasfigurato in una smorfia che tradisce la disperazione per l’ostracismo subito ad opera di una società che rifiuta di dar voce ed ascolto a chi ha inciso nell’Anima lo stigma della Morte. Le sue rughe d’espressione evocano le profonde cicatrici impresse indelebilmente sulla carne viva della sua gente e del suo continente. Vedo, in quelle lacrime, ciò che non è possibile nascondere: il disprezzo, le violenze, le ingiurie che martoriano il cuore, le sofferenza, i patimenti ed il fioco baluginare di una speranza subitamente mortificata. La sua figura filiforme è la raffigurazione icastica dell’arido deserto di polvere e sabbia, irrigato col sangue. Il suo volto è un terreno arato da bombe. Il suo sguardo è ormai perso appresso alle ombre di figli perduti, rubati al gioco, immolati alla guerra.

Poi c’è anche la seconda foto. Un anfibio militare che schiaccia contro l’asfalto un bambino. Non so se sia anch’essa un’immagine dei tristi eventi di Roma, ma è, senz’altro, l’emblema della strisciante metamorfosi che il sentimento e l’anima dell’Italia stanno subendo. Per quella foto ci son stati miei connazionali che hanno esultato, gioito, tripudiato. È la forza bruta delle armi che schiaccia e annichilisce l’innocenza dei bambini, colpevoli solo di aver immaginato che il mondo potesse riservare anche a loro spazi aperti dove giocare.

Se la prima foto è una finestra che si apre alla speranza, la seconda la uccide. Se nella prima immagine mi ritrovo, nella seconda mi spavento. Se quella carezza spontanea è anche in mio nome, quello stivale No! Non in mio nome. Non accetto che l’istanza di una sicurezza artatamente indotta implichi il sacrificio della mia umanità. Minniti, non in mio nome. Non puoi, in nome del popolo sovrano, sprofondare il Paese nell’inciviltà e nella barbarie, degne di un regime.

Le due foto raccontano meglio di mille parole l’epica senza eroi del XXI° secolo. La distopia che si prefigura come futuro per un’Europa che non ha saputo purgare la sua anima dalle sozzure perpetrate nel corso del secolo breve. Non abbiamo mai fatto radicalmente i conti con il nostro passato punteggiato di campi di sterminio e di un razzismo tacitato solo dall’ignominia, mai riscattato pienamente dal sincero cordoglio. Stiamo uccidendo quanto abbiamo di più prezioso: la nostra umanità, la nostra capacità di commozione e d’immedesimazione. Non c’è eroismo in quel tacco calcato sul corpo di un indifeso. Gli unici eroi sono gli ultimi, i dannati della storia, perché hanno nell’anima il dolore che noi abbiamo sparso a piene mani, ma anche quello che a noi non è più concesso: la forza eroica di sperare.