L’attuale crisi agricola e in particolare quella della pastorizia sarda, pur avendo molti punti di analogia con quella nazionale ed europea, ha sicuramente alcune peculiarità differenti e affonda le radici nella particolarmente travagliata storia sarda.

Con la strutturazione moderna delle aziende, il problema è principalmente rappresentato dalla crisi del prezzo del latte.

Di conseguenza le sovvenzioni sono, malgrado tutto, l’unico strumento capace di tenere in piedi il sistema.

Come già detto, è una crisi che si lega a quella più generale dell’agricoltura e del ben noto problema dello squilibrio della distribuzione del valore lungo la filiera.

Cerchiamo di capire quale ruolo abbiano avuto le trasformazioni storiche del mondo agropastorale, così trovarne spunto per laricerca di soluzioni.

Nei frequenti convegni tecnici e politici, si evidenziano puntualmente le stesse conclusioni: siamo bravissimi a produrre, tutta la filiera ha raggiunto un’efficienza e qualità eccellenti, ma continuiamo a gestire male la commercializzazione.

Cerchiamo di approfondire questo aspetto in particolare per trovare qualche spunto in più.
Le politiche agricole comunitarie, nazionali e regionali, hanno influenzato notevolmente le trasformazioni del mondo produttivo agropastorale e, pur avendone agevolato la modernizzazione, indirettamente ne hanno anche provocato alcune delle problematiche attuali.

Il pastore di un tempo, specialmente quello delle montagne, era molto diverso da quello di oggi. Gli allevamenti non disponevano di ricoveri per il bestiame e anche i ripari per gli uomini erano delle capanne di fortuna, non esistevano recinzioni e il ritmo di lavoro coincideva con il ritmo vitale degli animali allevati.

La produzione veniva trasformata direttamente e gran parte era destinata alla sussistenza della propria famiglia. La parte rimanente era oggetto di commercio e di baratto. Non erano necessari grossi investimenti di tipo economico, il patrimonio era rappresentato da “su capitale”, il bestiame.

Il lavoro era molto pesante e si era costretti a stare quasi costantemente con il bestiame, guidarlo e difenderlo giorno e notte. Il pastore antico non era ricco come intendiamo oggi, ma aveva tutto quanto necessario per vivere dignitosamente.

La vita pastorale era regolata da abitudini non scritte di solidarietàdi cui rimangono ancora oggi i segni evidenti.

Il mutuo supporto fatto di aggiudu torrau, paradura, di antichi ovili collettivi, testimoniano lo spirito sociale cooperante e solidale di quel tempo.

Parlare di mutualità, a prima vista sembra contrastante con l’immaginario diffuso sulla cultura pastorale e sarda in generale, descritta come individualistica e poco propensa alla cooperazione.

Con molta probabilità la cultura mutualistica del mondo pastoralee quindi della società sarda, ha subito trasformazioni e influenze nella stessa misura con cui nei secoli è stata trasformata la pastorizia stessa. Secoli di diverse dominazioni hanno favorito a più riprese l’alternanza di periodi di carestia e mutazioni, sfociate spesso nella forma di ribellione del banditismo.

La trasformazione traumatica causata dall’editto delle chiudende sulla pastorizia arcaica, nata e vissuta per secoli sul sistema delleterre pubbliche, ne ha modificato per sempre il modo di essere. I pastori passano da usufruttuari di terre collettive a proprietari o affittuari di terre private.

Probabilmente fu questo forte impulso a modificare fortemente i ritmi di una cultura collettiva, spingendola verso quella individualistica e forse anche il fenomeno dell’invidia, da sempre sentito e sottolineato, è figlio delle secolari vicende della storia sarda. Individualismo e invidia sono le due facce della stessa medaglia.

In seguito l’intento modernizzatore delle politiche agricole hanno svolto un enorme ruolo nella trasformazione dell’allevamento. L’opportunità di poter accedere agli aiuti per l’acquisto di terreni e per il loro miglioramento, la costruzione di stalle e abitazioni, ha trasformato per sempre il tipo di vita pesantissimo di un tempoanche con l’abbandono all’antica usanza della transumanza, trasformando l’allevamento nomade in stanziale con il trasferimento definitivo degli allevamenti ai luoghi più favorevoli, con la conseguenza di aver impoverito e spopolato i luoghimontani d’origine.

Gli allevamenti si sono modernizzati, si sono dotati di strutture, attrezzature, mungitrici, trattori. Gli allevatori hanno imparato lacoltivazione foraggera, si sono specializzati nella produzione del latte perdendo via via le caratteristiche di multifunzionalità tradizionali per concentrare tutte le energie nella cura del bestiame e nel miglioramento delle razze.

L’accrescimento della produttività lattiera è divenuta prioritaria edevidente è la tendenza del passaggio dall’allevamento estensivo a quello intensivo. Numerose aziende contano migliaia di capi, la continua selezione genetica ha prodotto animali sempre più produttivi ma allo stesso momento molto meno rustici e resistenti, necessitando di una sempre maggior attenzione nella difesa dalle epidemie favorite dalla concentrazione di un così alto numero di capi.

Aziende di tali dimensioni necessitano di superfici foraggere sempre crescenti in un susseguirsi di investimenti per sostenere una crescita continua. Tutto ciò ha prodotto aziende molto efficienti dal punto di vista produttivo, ma con un equilibrio economico sempre più delicato e un aumento sensibile dei costi di gestione.

Queste trasformazioni hanno favorito anche una sorta di separazione delle filiere. Diventa raro infatti che la trasformazione del latte avvenga in azienda anche per via dell’attuale legislazione in materia di sicurezza degli alimenti. Tutta la produzione èpassata ad essere conferita ai caseifici, molti dei quali di proprietà delle cooperative degli allevatori.

Anche i mini caseifici aziendali hanno cominciato a diffondersi, ma senza grande successo, perché nel frattempo si è trasformata tutta la catena distributiva e per essere competitivi si necessita di buone conoscenze in materia di commercializzazione, non sempre disponibili in aziende dalle dimensioni e dalla specializzazione di quelle odierne che assorbono gran parte delle energie, mentre sarebbe necessario disporre di figure specifiche che si possano occupare con successo delle politiche commerciali e di tali figure bisognerebbe valutarne attentamente i costi e i benefici in proporzione alla produzione.

Questi passaggi hanno finito trasformare anche l’idea e la consapevolezza che i pastori hanno di sé stessi. La maggior parte degli allevatori si sente vittima di un sistema modificato radicalmente.

Sembra che non si sia riusciti ad interpretare questi cambiamenti e si sia andati nella direzione contraria sotto le spinte distorsive delle incentivazioni, in ritardo sull’avanzata dei grandi sistemi economici che in pochi anni si sono appropriati deimercati e ora li governano a seconda della loro convenienza.

Il sistema cooperativistico potrebbe avere un ruolo determinante nel correggere certe distorsioni, ma lo scarso spirito corporativo di cui si accennava ne limita pesantemente la potenzialità. Eppure come vedremo, le cooperative potrebbero dare una spinta molto forte verso la correzione di molti di questi mali.

Progressivamente l’orgoglio e la difesa del il proprio lavoro e della propria cultura si è trasformato in lotta sindacale. Una contaminazione impropria che in oltre vent’anni di rivendicazioni,non ha portato a nessuno dei risultati sperati. Una sorta di lotta di classe traslata impropriamente in un mondo portatore di una cultura e una fierezza millenaria.

I pastori di oggi sono grandi allevatori, imprenditori di aziende modello, ma probabilmente soffrono per il fatto di essere cresciuti sulla scia di politiche di incentivazione che ne hanno alterato l’armonia. Ma sono pur sempre grandi imprenditori che poco hanno a che vedere la lotta importata dal mondo operaio dell’industrializzazione e delle fabbriche degli anni ’70.

Anche le associazioni di categoria ormai somigliano in modo impressionante ai sindacati operai. Difficilmente i loro ragionamenti vertono sugli aspetti economici e imprenditoriali, come sarebbe logico che fosse. Non è di sindacalismo in stile operaio che hanno bisogno i pastori.

I pastori hanno bisogno di riprendere in mano e governare da soli la propria filiera, maassociazioni di categoria divenute di stampo sindacale operaio come quelle attuali, non li possono aiutare.

(continua domani)