Fino a oggi avevo pensato che partecipare a manifestazioni per contestare qualcosa fosse una questione di volontà: la volontà di voler provare a fare qualcosa per cambiare ciò che non crediamo vada bene, per contestare un sistema, una imposizione, per ribadire un diritto.

Negli ultimi anni ho preso parte a varie manifestazioni e a vari cortei, più di una volta mi sono chiesta se ne fosse valsa la pena, e mi sono sempre risposta che per cercare di rendere migliore questo mondo, bisogna partecipare, parlare, discutere; mi sono detta che stando “alla finestra” non si ha nessuna possibilità, e che i cambiamenti, nella storia, sono sempre avvenuti grazie a chi si è mosso.

Fino a oggi pensavo occorresse la voglia di fare, per partecipare alle manifestazioni. Oggi qualcosa è cambiato, ho constatato che questo non basta. Ci vogliono i nervi saldi, per uscire di casa. Ci vuole l’autocontrollo.

Ci vuole la capacità di analizzare una situazione, capirla, valutare l’opportunità di ogni singola parola che si sente l’esigenza di far uscire dalla propria bocca. Ci vuole intelligenza e stabilità emotiva. Non importa quanto sia grande il dissenso e la contrarietà verso quello che vogliamo combattere, bisogna fare in modo di tenere i nervi saldi perché basta poco per passare dalla parte dell’attivista a quello di facironoso, e questo grazie a coloro che per lavoro si dovrebbero occupare della nostra sicurezza, della sicurezza di tutti: contestatori e contestati.

I tutori dell’ordine pubblico, con divisa e tenuta antisommossa, non mi erano mai apparsi dei nemici, li avevo sempre visti come uomini, come lavoratori. Erano una mia garanzia, in ogni corteo, erano i supervisori che si accertavano che non ci fossero intoppi di nessun genere: un violento mascherato da manifestante, per esempio.

Oggi invece, con mio grande rammarico, mi sono trovata al centro di una situazione totalmente inverosimile.

Dopo un viaggio di oltre tre ore per raggiungere il sito del poligono, dopo una manifestazione “in attesa”, dove non si è avuta nemmeno la possibilità di avvicinarci al luogo simbolo del potere militare, dopo la stanchezza, lo sconforto e il senso di inutilità che pareva tagliarsi a fette, decido di andare via, insieme alle persone con le quali ero arrivata.

Avevamo parcheggiato l’auto in una stradina di campagna, in una sorta di parcheggio spontaneo a pochi metri dal luogo di ritrovo. La strada dove sostavano i manifestanti era stata chiusa da ambo i lati dalle forze dell’ordine, oltre che dalla parte della via di accesso al poligono. Mentre ci rechiamo verso l’uscita assistiamo a qualcosa di assurdo e totalmente illogico.

Il cordone di poliziotti, tutti in tenuta antisommossa, non si accinge a sfaldarsi di una virgola. Un motociclista viene bloccato, notiamo che parla con il caposquadra. Spegne il motore per qualche minuto, dice che non lo fanno passare. “Deve esserci qualche problema” – penso – “Un problema con il motociclista”.

Dopo qualche metro, invece, mi accorgo che il problema è per chiunque voglia attraversare il cordone, per chiunque voglia PASSARE, per chiunque voglia andare via, dato che la manifestazione era conclusa. Il caposquadra ci dice che non si può, che dobbiamo avere pazienza, che quando si partecipa a una manifestazione si suppone che ci sia “una unione di intenti”.

«Certo – penso – l’unione di intenti è quella che non siamo d’accordo sul sistema di produzione di bombe, su uno sfruttamento del territorio che ha fatto sì che la zona di Quirra, invece che alle sue splendide spiagge, sia stata associata alle malattie, ai tumori, alle malformazioni di neonati. Ecco, quella è la nostra “unione di intenti”».

Il caposquadra continua a bloccarci la via dicendo che dobbiamo avere pazienza e che, per questioni di democrazia (?) dobbiamo aspettare di vedere cosa fanno gli altri partecipanti, che dovremo andare via tutti insieme (?!). La stanchezza e il senso di impotenza cominciano a farsi sentire, comincio a scocciarmi di un simile atteggiamento, di cui davvero non riesco a seguire la logica. Chiedo al poliziotto-capo il motivo per il quale non possiamo uscire, sottolineo che non capisco perché e cosa devo aspettare, dico che i partecipanti alla manifestazione fanno parte di tanti gruppi provenienti da diverse parti della Sardegna, e che non posso aspettare che decine di persone che non conosco decidano di rientrare a casa.

Il poliziotto graduato mi ribatte che, se fossi stata più serena, sarei già potuta andare via, sarei già potuta passare. Succede che mi innervosisco ancora di più, faccio appello al mio autocontrollo, mi impongo di stare calma e inizio a passeggiare per stemperare i nervi. Incontro una manifestante che mi chiede cosa stia succedendo, le spiego che l’uscita è chiusa, mi accorgo che tutto intorno nascono discussioni su quanto sta accadendo poiché la gente si sente bloccata tra due varchi, in ostaggio, senza una qualsiasi motivazione logica.

Continuo a camminare nei pochi metri liberi della strada: da una parte il plotone super accessoriato e chiuso, dall’altro i manifestanti scocciati e insofferenti. Credo di essere vicino ad uno scontro. Causato non da facinorosi ma da colui che dovrebbe tutelare tutti noi, che dovrebbe essere garante del mantenimento di una situazione di calma.

Continuo a camminare e provo ad appoggiarmi ad una macchina, ma la tensione non scende. Chiedo nuovamente di poter passare, faccio notare al graduato che il suo atteggiamento non è appropriato, che così facendo sta creando solo nervosismo, ribadisco che voglio andare via. Mi sento in trappola, colpevole solo di voler andare a casa. Dopo ancora qualche minuto di “purgatorio” ci lasciano passare.

Mi chiedo cosa sarebbe successo se al mio posto ci fosse stata un’altra persona, magari più irruenta, più immatura, sicuramente avrebbe reagito in maniera più decisa, per tutelare il sacrosanto diritto alla libera circolazione. Volevo sottolineare che, in uno Stato dove non c’è la certezza della pena, dove i delinquenti e gli assassini sono liberi dopo pochi mesi, dove tantissime persone si sono trovate, per pura coincidenza e senza avere nessuna colpa, a vivere l’esperienza carceraria, non è esattamente “rassicurante” trovarsi davanti persone che, invece di mettere in pratica i loro compiti, fanno di tutto per ottenere l’effetto contrario. Quando questo accade in una condizione di evidente disparità, poi, è ancora più grave.